Wednesday, December 15, 2004

[Wiesel] Antisionismo e antisemitismo

Per Wiesel dall’opposizione a Israele all’antisemitismo il passo è breve
“LA SINISTRA EUROPEA METTE UN TALE ZELO NELLA DENUNCIA… MA SA CHE HA DI FRONTE UN POPOLO DALLA MEMORIA FERITA?”

Il Foglio, 15 dicembre 2004, pag 2
di Marina Valensise

New York. Elie Wiesel è un uomo minuto,
mingherlino, dà però certe strette di mano
vigorose, con quel palmo largo, liscio, energico.
Quando gli dici che è una leggenda vivente
– sopravvissuto ad Auschwitz e alla
Shoah, presidente del Consiglio degli Stati
Uniti per il Memoriale dell’Olocausto, Nobel
per la pace nel 1986, fondatore della
Foundation for Humanity, testimone degli
orrori del XX secolo e difensore infaticabile
delle vittime di violenze e persecuzioni
politiche – si schernisce guardandoti dal
fondo dei suoi occhi tristi da rabbino della
Transilvania, e risponde di no, che non è vero,
lui per sé non è affatto una leggenda.
Eccoci qui nel suo studiolo traboccante
di libri, al 14° piano della Carlton Tower,
nella 64a Strada, Upper East Side. Wiesel, in
maniche di camicia con cravatta allentata,
indica perentorio il divano su cui sedersi,
mentre lui per sé sceglie una sedia, in postazione
dominante. Se gli domandi di spiegarti
come fa un sopravvissuto all’Olocausto
a reggere l’odio nuovo che corre per il mondo
e affligge l’occidente, ti guarda fisso. Comincia
a scegliere le parole mettendo fra
l’una e l’altra lunghe pause, e le scandisce
lentamente nel suo americano da rumeno
emigrato: “No, l’odio non è nuovo. E’ vecchio
quanto il mondo, a volte però raggiunge
livelli di guardia per la sua crudeltà, per
la brutalità, per gli effetti omicidi che raggiungono
certi eventi apocalittici”. Ma
quando insisti per capire come risponde all’onda
nuova di odio venuto dall’islam, Wiesel
ammette: “La nuova ondata ha provocato
in me più stupore di altre. Perché? Perché
dopo la guerra ero convinto che antisemitismo
e razzismo, odio etnico e religioso
fossero morti ad Auschwitz. E invece mi
sbagliavo. Solo le vittime erano morte. L’odio
che le ha uccise è ancora vivo”. E aggiunge:
“Dico stupore, perché allora ingenuamente
pensavo che non avrei mai dovuto
combattere in questo mondo. Ma dall’11
settembre dobbiamo combattere tutti”.
Wiesel viene da una famiglia di Hassidim
della Transilvania. E’ cresciuto leggendo i
libri del Pentateuco e studiando il Talmud.
Quando i nazisti arrivarono a Sighet e lo deportarono
ad Auschwitz con la sua famiglia
era un ragazzo di 15 anni. La madre e la sorella
più piccola morirono subito. Le due
sorelle maggiori sopravvissero. Elie e il padre
furono portati a Buchenwald, dove il padre
morì nell’aprile 1945 pochi giorni prima
della liberazione, e il figlio riuscì a sopravvivere
ai lavori forzati, alle marce nel gelo,
alle fame, alle botte, alle torture. Dal 1945 al
1956 Elie Wiesel ha vissuto in Francia, e
della giovinezza francese ha conservato la
lingua che coltiva a distanza di anni come
un tesoro, leggendo i romanzi americani solo
in traduzione francese, e pubblicando i
suoi libri in Francia prima che in America.
Ha appena pubblicato un nuovo romanzo
“Les temps de déracinés”, mentre sta
per finire il terzo volume dell’autobiografia,
“Mes maîtres et mes amis”. Non si fa illusioni:
“La letteratura da qualche decennio
attraversa un periodo meno privilegiato
di altri. Chi è il nuovo Dostoevskij?Il nuovo
Dante? Il nuovo Vittorini? Il nuovo Thomas
Mann? Mancano oggi grandi scrittori
che affrontino grandi temi per descrivere il
presente. Peccato. Io penso che la storia abbia
scelto di investire il suo genio e il suo
talento altrove, non nella letteratura o nella
filosofia, ma nella scienza e nella tecnologia”.
Pure se la tecnologia porta all’autodistruzione?
“E’ la spada biblica all’ingresso
del paradiso. Noi creiamo gli strumenti
per guarire dalla malattia, e giustificare la
vita, e se non facciamo attenzione li trasformiamo
in strumenti di morte. Ma alla fine
la scelta è solo nostra”.
Parla di scelta Wiesel come un americano
nato, mentre lo è diventato solo da adulto,
e da allora conserva intatta la devozione
al civismo. “Sono arrivato in America come
apolide, da Parigi. Il primo passaporto che
ho avuto è stato americano, per questo motivo
nutro sentimenti particolari verso tutti
gli emigrati accolti da questa terra. Ricordo
ancora il tempo in cui le porte d’ingresso
erano chiuse per le migliaia di persone,
donne, bambini, la maggior parte ebrei, che
non riuscivano ad avere un futuro. Ricordo
ancora la Saint Louis, la nave sulla quale
nel 1939 s’imbarcarano più di mille profughi
dalla Germania, che vennero rispediti
indietro senza poter attraccare alle coste
americane. E nonostante tutto, oggi che
commemoriamo il 350° anniversario del primo
sbarco di ebrei, sono convinto che il rifugio
americano sia molto più ospitale”.
Un profugo illustre come Wiesel dunque
non può che trovare assurdo l’antiamericanismo
dilagante. “Chi odia l’America odia
anche Israele. E’ strano che un grande paese
e un piccolo paese nutrano la stessa avversione.
Il perché lei dovrebbe conoscerlo
meglio di me, visto che vive in Europa. A
volte è un problema politico. Altre volte è
un problema di orgoglio nazionale. In certi
circoli intellettuali di sinistra fa bene opporsi
all’America e denunciare Israele. Ma
tutto questo pone un problema di formazione.
L’antisemitismo è una piaga che se non
si ferma in tempo può invadere pericolosamente
altre aree, colpire i sogni di altra
gente E se l’opposizione a Israele si fa estrema,
si ricade nell’antisemitismo”.
Per essere uno che porta scritte in faccia
le ferite del passato, Wiesel troverà scandaloso
il paragone tra lo Stato ebraico e lo Stato
nazista, che corre fra gli estremisti d’Europa.
“Non hanno idea di cosa fossero Hitler
e il nazismo. Quel paragone hanno iniziato
a farlo i comunisti sovietici, alla fine
degli anni 50, quando l’Izvestija paragonava
Moshe Dayan a Eichmann. Ma se Dayan era
Eichmann, Eichmann non poteva essere
Dayan. Tra i due c’era la differenza di sei
milioni di morti. Quando leggo oggi che
Israele sarebbe uno Stato nazista, e Sharon
un nuovo Hitler, a colpirmi personalmente

e profondamente è non solo l’ingiustizia, ma
l’ignoranza che il paragone contiene”. Wiesel
non vuole polemizzare con chi vi indulge,
ma lancia un giudizio severo. “Gli intellettuali,
anche quando mostrano cosa li oppone
ad altri, dovrebbero continuare a
creare ponti, siano essi dialoghi o monologhi,
il che significa usare le parole, non la
guerra. Gli intellettuali della sinistra europea
invece mettono un tale zelo nella denuncia
di Israele, che a volte mi domando
se si rendano conto di avere di fronte un popolo
dalla memoria ferita e mutilata”.
Si sarebbe mai aspettato di dover combattere
contro l’islam? “No. Islam e giudaismo
hanno convissuto per secoli in armonia.
A volte certo ci sono stati pogrom e catastrofi,
ma l’islam nel Medioevo era solito
proteggere gli ebrei dalle persecuzioni cristiane.
Ora, invece, è diventata una minaccia
sia per Israele, sia per le democrazie nel
mondo, e non solo in America. Il terrorismo
suicida trascende i confini geografici delle
affinità religiose. E in realtà minaccia lo
stesso mondo islamico, come dimostrano gli
attentati in Marocco, in Indonesia, in Spagna
e in altri paesi”.
Quanto all’angoscia di un nemico invisibile,
contro il quale non può valere alcun
deterrente, Wiesel cerca di aggirarla con
una proposta: “Il suicidio per molti musulmani
è l’arma assoluta. Il culto della morte
è un fenomeno pericoloso. Ma un terrorista
suicida vuole morire per uccidere il maggior
numero di persone. E’ per questo che
ho proposto di considerare il terrorismo un
crimine contro l’umanità. Non che questo
fermi la mano dei terroristi suicidi. Ma può
servire a fermare i loro complici. Perché su
chi compie un crimine contro l’umanità non
c’è limitazione statale, e c’è l’obbligo da parte
di tutti i paesi membri dell’Onu di estradarli
e di portarli davanti a un tribunale internazionale”.
Congedandoci Wiesel mostra grande saggezza
talmudica: “Quando sono pessimista
divento ottimista e viceversa. Ma resto un
insegnante, e non ho il diritto di dare ai
miei studenti ragione di disperare, perciò
devo invocare la speranza, che non è un arma,
ma un’arte di ispirare alla gente l’idea
di futuro, di una vita comune, di un sogno
condiviso dall’intera umanità”.
Marina Valensise

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