Sunday, February 27, 2005

[Foglio] L'Europa incantata dalla decadenza

Sigmund Ginzberg
su "La Montagna Incantata"
Il Foglio

Nel grande romanzo di Thomas Mann la metafora della sua vecchiaia e
della sua “simpatia con la morte”
Leggiamo sui giornali che entro fine novembre chiude, dopo 140 anni di
attività, il sanatorio di Davos che aveva ispirato “La montagna
incantata”. Dicono che era proprio quello, il Valbella, con la sua
cupola zincata, e la facciata balconata che si rivolge verso
fondovalle, quella su cui si stendevano i tisici a respirare, avvolti
dalle coperte, l’aria fresca, anche se nel romanzo si chiama con un
altro nome: Berghof. Ma avrebbe potuto essere un altro: a quell’epoca a
Davos di sanatori per malati di tubercolosi ce n’erano almeno una
trentina. Quello in cui Thomas Mann aveva trascorso tre settimane nel
1912 in visita alla moglie Katia, affetta da una forma lieve, si
chiamava Waldsanatorium, e da tempo è stato trasformato in hotel, che
ospita sciatori d’inverno, vacanzieri d’estate, e gli ospiti del famoso
Forum della globalizzazione economica nella stagione morta. In sé non è
una grande notizia. Ma riesce a emozionare ugualmente, carica com’è di
simbolismi degni di uno dei romanzi dichiaratamente più carichi di
metafore e simboli, molteplici possibili letture, della letteratura
moderna. Da tempo non c’è più la tubercolosi classica, che nell’Europa
di inizi ’900 superava come causa di morte il cancro e le malattie
cardiovascolari (salvo l’emergere recente di nuovi ceppi insensibili
agli antibiotici). C’è l’Aids, ma costa troppo curarsela in Svizzera. E
comunque pare che i trattamenti in alta montagna gli facessero più male
che bene. Neanche la Svizzera è quella di una volta. Ma ancora una
volta, come quasi un secolo fa, si respira nell’aria del vecchio
continente una sensazione di smarrimento, un odore di decadenza e
sfacimento, l’impressione che un’epoca si sia chiusa, un intero modo di
vita cui ci eravamo abituati nei decenni scorsi stia tramontando – così
come il romanzo di Mann voleva essere il “canto del cigno” della Belle
époque – mentre si affollano interrogativi senza risposta su cosa c’è
da aspettarsi al suo posto. L’Europa ricomincia a sentirsi un po’ come
i pazienti che venivano invitati a fermarsi in sanatorio per qualche
settimana, e poi finiscono per restarci anni, e ci muoiono. La
guarigione economica, tante volte preannunciata, data per imminente, o
almeno predetta come inevitabile, non si vede. Il Valbella, leggiamo,
era gestito con capitali tedeschi, ed è proprio la Germania la maggiore
delusione. Il “sorpasso” dell’America è rinviato sine die. Così come
gli “Stati uniti d’Europa”. Comincia a non fidarsi dei suoi dottori. Ma
non saprebbe a chi altro rivolgersi. Arranca nei suoi dubbi. La sua
storia dovrebbe averla vaccinata contro stregoni, profeti e fanatici,
“salvatori dell’umanità” compresi. E’ ragionevole ritenere che non si
trovi sull’orlo di una catastrofe come fu la Prima guerra mondiale (con
le sue lunghe propaggini nella Seconda). Non percepisce il terrorismo
come una minaccia mortale. Forse non si sta accorgendo di invecchiare,
o non se ne preoccupa quanto dovrebbe (c’è ancora tempo perché ognuno
in età lavorativa debba sostentare due pensionati). Tira avanti,
ipnotizzata dal tran tran. Annoiata, quasi rassegnata. Con una
sensazione di malessere percepibile, ma non apocalittico. “Metafora
della malattia”, è stato definito il romanzo di Thomas Mann. “Danza
macabra in un hotel di lusso”, ha detto qualcun altro. Radiografia di
un’epoca in disfacimento, quella del primo anteguerra europeo, ammise
l’autore. Con rimpianto struggente, ma anche una punta di necrofilia.
Morbosa quanto il pegno erotico che si scambiano il protagonista e la
donna amata: una radiografia del torace, senza testa, che mostra gli
organi come ombre, quasi fossero già in disfacimento. Una
rappresentazione incantata, in ammirazione, non in orrore, della
decomposizione dall’interno, come quella che ci viene offerta dei
dipinti di Francis Bacon o Lucien Freud. “Un libro di simpatia con la
morte”, il modo in cui Mann l’avrebbe definito nel saggio “Su me
stesso”. Una composizione musicale sulla decadenza, come lo sono le
sinfonie di Mahler (“Devo annoverarmi tra gli scrittori musicisti. Per
me il romanzo è sempre stato una sinfonia, un lavoro di contrappunto,
un tessuto di temi dove le idee fanno la parte dei motivi musicali”,
avrebbe spiegato, sempre Mann, parlando della sua “Montagna
incantata”). Ma no, “il solo romanzo umoristico dei nostri giorni”, gli
era capitato di scrivere in un’altra occasione al critico svizzero
Robert Faesi. Forse non bisognerebbe badare troppo a quel che di un
romanzo ne dice l’autore. Pesa di più quel che ne cava il lettore. Le
apparenti contraddizioni del “maestro delle contraddizioni” rivelano
che – prerogativa di tutti i veri capolavori – lo si può leggere in
molti modi, e ogni volta in modo diverso. Thomas Mann aveva iniziato
una sua lezione agli studenti di Princeton con la richiesta – che
ammetteva “molto arrogante” – di “leggerlo due volte”. C’è chi, come
Massimo Cacciari, dice di averlo letto almeno dodici volte. Andrebbe
letto, avvertiva, “su molti piani”. Di cui, “ciò che molta gente vi
scorgeva da principio, e anche oggi vi scorge: una satira della vita
nei sanatori per malati di polmoni” è solo quello iniziale, di
“sfondo”, o di “primo piano” che si voglia. Seguono quello “romantico”,
quello filosofico, quello allegorico e simbolico, del mito, quello
medico-biologico-scientifico, quello dell’eterna iniziazione, persino
quello esoterico e occultista. Ogni lettore vi aggiungeva via via il
suo. E l’autore non ne ha mai rifiutato uno, nemmeno quelli a cui
confessa di “non averci pensato” prima che un critico glielo facesse
notare. Gli piaceva pensarci anche come a un romanzo sui misteri del
tempo. Tempo storico, tempo puro, e “tempo che si accorcia in modo
abnorme a causa della monotonia”. Insomma, anche un romanzo sulla noia.
“Castorp, vecchio mio, lei si annoia. Sta con la testa ciondolone, lo
vedo tutti i giorni, l’uggia le sta scritta in fronte. E’ un bambolone
disgustato, viziato dai fatti impressionanti, e se non le si offre ogni
giorno qualcosa di eccezionale, mette il broncio e borbotta contro la
stagione morta”: così si rivolge il dottor Behrens al protagonista del
romanzo, l’ingegnere navale Hans Castorp, “giovane semplice ma
simpatico”, borghese ed europeo medio, che al sanatorio era arrivato
per una visita di qualche giorno al cugino tisico, e finirà per
restarci sette anni. “Diremo di più. Non soltanto lui, Castorp, pareva
arrivato a quel punto morto, ma egli aveva anche l’impressione che il
mondo, tutto insieme, fosse nelle medesime condizioni, ossia: pensava
che fosse difficile distinguere il particolare dall’universale”,
insiste poco dopo il narratore (Volume II, capitolo VII, sottocapitolo
intitolato “La grande stupidità”, pp. 619 e 621, citiamo dalla
traduzione di Ervino Pocar, per Corbaccio). E’ già molto avanti nella
sua “formazione”, compresa quella sentimentale, e nella sua “ricerca”
del senso della vita (una sorta di eterna ricerca del “Santo Graal”,
secondo molti interpreti, prontamente assecondati dallo stesso autore).
Ha superato tutte le prove di “iniziazione”. E’ molto avanti nella
“guarigione”, anzi guarito, tanto che già da tempo volevano dimetterlo.
A prima vista non gli manca nulla. Non ha il problema di farsi
rimborsare dalla mutua (ci pensa la famiglia). Si è perfettamente
abituato ai ritmi della vita da sanatorio-grand hotel, ai cinque pasti
al giorno (la sua non è noia da assuefazione, non c’è nulla di avvin-
cente quanto le abitudini, ci si può innamorare anche di una mensa
aziendale), alle magnifiche passeggiate, ai piccoli riti quotidiani,
alla mutevole compagnia, all’andirivieni di ospiti che se ne vanno (per
lo più in bara) o che arrivano, all’alternarsi quasi sempre uguale
delle stagioni. Non gli mancano le distrazioni e l’entertainment: non
c’è ancora la televisione, ma gli ospiti del sanatorio sopperiscono con
grande fantasia di giochi di società, fino alle sedute spiritiche.
Producono una sorta di Grande fratello o di Isola dei famosi non stop.
Un intero capitolo, intitolato “Profusione di armonie” è dedicato ai
gusti musicali, scatenati dall’arrivo di un’ “invenzione che fa epoca”,
“uno scrigno lucidato in nero opaco che, un po’ più fondo che largo,
attaccato con un cavo a una presa elettrica sulla parete, stava
semplice e distinto su un tavolino…”: no, non la tv ma il suo antenato,
un grammofono marca Polyhymnia. E’ un ragazzo ammodo, fine ed educato,
senza troppi grilli per la testa, senza fuori eroici, sensibile ma
abbastanza controllato anche nelle passioni, compresa quella
travolgente per la sua educatrice sentimentale, la felina madame
Claudia Chauchat, dai conturbanti “occhi circassi”. Il problema è che
non ha trovato risposta a nessuno degli interrogativi della sua
“ricerca”. Né quelli terra terra (la medicina, la biologia, il
funzionamento del suo corpo, i rapporti col prossimo, le questioni
personali, l’amore per le donne, o un rimosso amore per gli uomini o
quelle sociali e storiche), né quelli “alti” (il senso del tempo,
quello della vita, quello delle morte). Presumibilmente le risposte non
le troverà quando, a conclusione del romanzo, lasciata la prigione
incantata del sanatorio, sceso finalmente “in pianura”, lo lasciamo
sotto le granate che scoppiano durante l’assalto alle trincee nemiche,
immerso nel fango, nel sangue e i brandelli di carne dei suoi
commilitoni. E, se è per questo, non credo che le abbiamo ancora
trovate, malgrado siano passati quasi altri cent’anni, e malgrado tante
false avvisaglie, le diverse volte che pure era sembrato che fossimo lì
lì per arrivarci. Eppure c’è chi, per oltre metà romanzo, gli aveva
fatto una testa così, per convincerlo della via giusta. A contendersi
ferocemente e incessantemente l’anima del giovane Castorp, nel coro di
personaggi che ruotano attorno al sanatorio (tanti che ci vorrebbe una
scheda promemoria, come per quelli di “Guerra e pace” di Tolstoj),
spiccano il democratico, razionalista, liberale, nazionalista,
umanista, massone, progressista Ludovico Settembrini e il
rivoluzionario, reazionario, ebreo, gesuita Leo Naphta. Il figlio di
carbonaro Settembrini si presenta come l’incarnazione del politically
correct eclettico. Contrappone continuamente ragione contro istinto,
mente contro corpo, spirito contro natura, lavoro contro ozio, Europa
contro Asia, illuminismo contro medioevo, democrazia contro
totalitarismo. “Due principi, secondo la cosmogonia settembriniana,
erano in perpetuo conflitto per il possesso del mondo: forza e
giustizia, tirannia e libertà, superstizione e conoscenza, legge di
conservazione e legge del mutamento”. E’ un pacifista militante, odia
la guerra e la violenza, arriva a sostenere che la stessa “esistenza
del soldato è spiritualmente discutibile”. Come esitare a scegliere,
messa così? Non è solo il buon Castorp ad esserne attratto. Lo è
dichiaratamente lo stesso Thomas Mann, anche se lo prende in giro, ne
fa una macchietta “umoristica”: è “talvolta anche il portavoce
dell’autore”, si sarebbe spinto a confessare agli studenti di Princeton
che nel 1939 lo avrebbero invitato a tenergli una lezione sulla
“Montagna incantata”, pur mettendo subito le mani avanti aggiungendo
che però “non è certo l’autore stesso”. La sua antitesi, altrettanto
eclettica, è il figlio di un macellaio rituale ebreo della Galizia, che
l’acuta intelligenza ha portato al seminario dei gesuiti, Naphta.
Canzona le ingenuità dell’avversario, il suo “buonismo”: “La
liberalizzazione dell’islam! Magnifico. Il fanatismo illuminato.
Benissimo” (p. 374). Gli contrappone un cinismo e un realismo
altrettanto assoluti e fanatici: “Se crede che il risultato di future
rivoluzioni sarà… la libertà, s’inganna. In cinquecento anni il
principio della libertà si è compiuto ed è superato. Una pedagogia che
oggi si considera ancora figlia dell’illuminismo e scorge i suoi mezzi
educativi nella critica, nella liberazione e nella cura dell’io, nella
eliminazione di forme assolute… una siffatta pedagogia potrà ancora
riportare vittorie retoriche del momento, ma la sua arretratezza è, per
chi se ne intende, al di là di ogni dubbio. Tutte le società educatrici
hanno sempre saputo che cosa occorra realmente…: il comando assoluto,
il ferreo impegno, la disciplina, il sacrificio, la negazione dell’io,
la violazione della personalità. Credere infine che la gioventù si
compiaccia della libertà, significa fraintenderla freddamente. Il suo
più vivo piacere è l’obbedienza”, dice. E aggiunge: “Essa ha bisogno,
essa esige, essa saprà procurarsi… sapete che cosa? Il terrore” (p.
394). Anzi: “Il terrore per la salvezza del mondo e per la riconquista
della redenzione finale, della fede in Dio senza Stato e senza classi”
(p. 397). Il terrore santo, per “il rinnovamento della società sul
modello dell’ideale e comunista stato di Dio”. Un terrore
rivoluzionario, “contro il mondo internazionale del commercio e della
speculazione”. Confusi? Una sorta di archetipo di “catto- comunista”,
un crociato che deride il buonismo degli illusi, un giustificatore
della guerra, del polso di ferro (ci sono pagine in cui arriva a
giustificare eloquentemente persino la tortura) e che parla come bin
Laden? Un laico e un massone che parla invece come i pacifisti? La
confusione potrebbe essere attribuita all’anacronismo – questa specie
di rissa da talk show televisivo, che si protrae per quasi metà del
romanzo – avviene in altra epoca, in cui le “parti” della commedia
possono apparire invertite. Ma la confusione è probabilmente anche
voluta. Chi dei due è più “di sinistra” o più “di destra”? L’anima
bella Settembrini che invoca a ogni piè sospinto l’homo humanus, o il
“comunista” e quasi prete Naphta che invoca l’homo dei? Se lo chiede ad
un certo punto anche Castorp, e arriva ad una risposta stupefacente:
“Naphta, argomentava, era bensì rivoluzionario come Settembrini, ma lo
era in senso conservatore, un rivoluzionario della conservazione” (p.
453). I due litiganti hanno la funzione di farsi da spalla, in qualche
modo sostenersi, integrarsi l’uno nell’altro. Ci viene persino
preannunciato la prima volta che Castorp li incontra: “Non vi dovete
stupire, questo signore e io litighiamo spesso, ma sempre in buona
amicizia, e in base a parecchi punti di intesa” (p. 373). C’è chi ha
notato che i loro punti di vista, nella loro simmetria, sono
sostanzialmente identici. Ciascuno dei due ha un rapporto
approssimativo con la realtà, che piega alla propria logica. Entrambi
vedono il mondo come campo di battaglia di forze contrapposte, e
ciascuno dei due si allea con quella che considera “superiore”
all’altra. L’uno la chiama “ragione”, l’altro “fede”. Entrambe portano
in un vicolo cieco. Di vie da esplorare ce ne sono in verità anche
altre, forse tante quanti sono i personaggi, a cominciare da quella
incarnata dal piantatore di tabacco olandese in pensione Pieter
Peeperkorn, altra figura nicciana, spuntata si direbbe dalla nascita
della tragedia, la via dionisiaca ed edonista. Ma anche quella porta
alla stessa conclusione, l’unica certezza assoluta, che tanto vale
imparare ad apprezzare anziché temere: la morte, nel caso specifico per
suicidio. Nel 1937 agli studenti di Princeton Thomas Mann non poteva
che promuovere suo “portavoce” che il solo Settembrini: nel frattempo
erano venuti al potere Hitler in Germania e Stalin in Russia. Nel 1924,
l’anno in cui finì di scrivere “La Montagna incantata” poteva invece
permettersi di essere ancora un pochino più ambiguo. I giovani di cui i
due litiganti contendono l’attenzione li stanno a sentire entrambi, non
mandano nessuno dei due al diavolo. Il cugino militare di Castorp,
Joachim Ziemssen, uno dei soli due personaggi che sembrano sottrarsi
alla corrosiva ironia che colpisce gli altri (l’altro è il nonno Hans
Lorenz Castorp, grande e severo borghese di vecchio stampo, che
reincarna il nonno industriale di Lubecca di Mann), diffida di Naphta,
ma con un argomento bizzarro: “Ha detto alcune cose che mi sono piaciu-
te… Ma lui non mi è piaciuto… guardalo bene, ha un naso da vero ebreo!
Così esili sono sempre soltanto i semiti….”. “Dici così soltanto perché
sei militare. Ma anche i Caldei avevano il naso così, eppure erano
straordinariamente in gamba…”, la risposta del nostro eroe (p. 379).
Naphta parla spesso, quasi testualmente, come Nietzsche. E
all’intellettuale tedesco a cavallo tra i due secoli Thomas Mann,
piaceva molto Nietzsche. I critici concordano nel ritenere che, per la
figura di Naphta, Mann si sia ispirato, anche fisicamente, ad un
personaggio reale, l’intellettuale comunista ed ebreo György Lukács
(“pallido, dal volto scavato, impaziente e triste”, nella descrizione
di un contemporaneo). E quando, dopo il fallimento della rivoluzione
“bolscevica” ungherese di Bela Kun del 1919, questi si rifugiò a
Vienna, Mann arrivò a scrivere all’arcivescovo della città per
intervenire in suo favore. Lukacs, molti anni dopo, gli avrebbe reso il
favore dedicandogli il libro su Thomas Mann e la tragedia degli
intellettuali tedeschi. E nella “Distruzione della ragione” si sarebbe
dato da fare per rinnegare Nietzsche. Mann non fu certo nazista –
dovette anzi scappare in America – tanto meno comunista. Ma la sua
generazione era profondamente influenzata dall’avversione e dal
sospetto che sia il fascismo che il comunismo nutrivano nei confronti
della “democrazia parlamentare”. Nelle “Considerazioni di un
impolitico” spiega perché “l’umanità tedesca sostanzialmente resiste
alla politicizzazione”: “Non voglio che il trafficare del Parlamento e
dei partiti porti all’infezione dell’intero corpo della nazione col
virus della politica… Voglio imparzialità, ordine e pulizia. Se
significa essere filistei, ebbene voglio essere filisteo. Se è essere
tedeschi, voglio, per Dio, essere chiamato tedesco”. Ebbe troppa
grazia, i nazisti lo volevano accoppare. Anche, e particolarmente
perché nel frattempo gli avevano dato il Nobel. Non era ebreo, ma
sarebbe finito probabilmente in un campo di sterminio, magari come
omosessuale in incognito. In America ebbe guai col maccartismo. Tanto
da decidersi a tornare in Europa, ma a Zurigo, non in Germania. Morì in
Svizzera, proprio nel paese dove aveva ambientato i dialoghi della sua
“Montagna incantata”. Settembrini e Naphta sono caricature. Così come
l’intero romanzo è all’insegna dell’humour e della satira. Era stato
concepito inizialmente come versione in parodia, leggera, dei temi
trattati in modo drammatico ne “La Morte a Venezia”. Per poi
gonfiarglisi in mano ed assumere le dimensioni di “romanzo
enciclopedico”. Fanno a gara nell’esagerare, caricaturare, le
rispettive posizioni, le condiscono di un profluvio di riferimenti
dotti, di citazioni erudite, di interpretazioni “ellittiche”, a tratti
demenziali, delle vicende storiche. Sono comici, ma non fanno ridere.
Sarà perché, nella loro a tratti scurrile demenzialità evocano fili
rossi inquietanti, da Ignazio di Loyola a Lenin e infine ad Osama bin
Laden da una parte, e da Voltaire a tutti i suoi più infami “bastardi”
dall’altra? O perché le stupidaggini che dicono hanno qualcosa di
profetico, al di là dei riferimenti che il loro creatore letterario
poteva avere al momento, come quando Naphta si lancia in
un’appassionata apologia della tortura come “risultato di un progresso
razionale”, passo in avanti rispetto al “giudizio di Dio”, all’ordalia
“soppressa perché la gente s’era accorta che il più forte riusciva
vittorioso anche quando aveva torto” (p. 452); o quando tocca invece
all’umanista Settembrini, militante di tutte le buone e giuste cause,
lo “zampognaro della pace” (p. 442) iscritto e promotore di ogni
immaginabile società illuminata e progressista, dalla “lega
internazionale per abolire la pena di morte”, al “congres- so
internazionale per la cremazione”, lanciarsi in una perorazione della
“distruzione del cadavere mediante le fiamme: quale idea pulita,
igienica e dignitosa, persino eroica, a paragone dell’usanza di
lasciare che si dissolva miseramente da sé e venga assimilato da esseri
inferiori!” (p. 450). Giustificazione delle Abu Ghraib di ogni colore
da parte del “comunista” che pure ha visto morire il padre macellaio
inchiodato in croce sulla porta della propria casa in fiamme dopo un
pogrom? Premonizione delle giustificazioni “igieniche” dei forni
crematori di Auschwitz? Non ha importanza il motivo per cui Mann gli fa
dire queste cose. Quel che conta è ciò che possono evocare nel lettore
al momento in cui le legge. I due in costante battibecco sono
stereotipi che provocano, pasticciano, a un certo punto francamente
annoiano. Eppu- Lucien Freud. “Donna che indossa un pull-over con
farfalle”. Olio su tela, collezione privata Satira feroce del fanatismo
e delle anime belle liberali; di un gesuita diventato marxista e di un
pacifista inconcludente re, i “giovani”, a cominciare dal buon Castorp,
continuano a starli a sentire a bocca aperta. Hanno un auditel elevato,
si direbbe oggi. Generazione dopo generazione di lettori della
“Montagna incantata” vi ha ritrovato qualcosa dei litiganti del proprio
tempo. A me stavolta hanno fatto venire in mente, chissà perché, in
ruoli rovesciati, Oriana Fallaci e Tiziano Terzani. Ad altri lettori
potranno evocare figure diverse. Finirà, nell’ultimo capitolo, con una
sfida a duello tra i due. “Lei sbaglia amico mio – ribatté Settembrini
ad occhi chiusi… – lei sbaglia prima di tutto con l’ipotesi che le cose
dello spirito non possano acquistare carattere personale… Ma sbaglia
soprattutto con la valutazione delle cose dello spirito in genere, che
lei considera troppo deboli da suscitare conflitti e passioni della
durezza di quelli che sorgono nella vita reale e non lasciano altra
soluzione che quella delle armi. Al contrario! L’astratto, il ripulito,
l’ideale è a un tempo anche l’assoluto, il rigoroso e contiene molte
più possibilità di odio, di incondizionata e irreconciliabile ostilità
che la vita sociale…” (p. 692). Ancora una volta inizia in modo
ridicolo. Come all’insegna del ridicolo sono i quadri preparatori del
duello: la disputa, a colpi seriosi di codice cavalleresco, tra
polacchi, che finisce in allegre schiaffeggiature, e la storia
dell’antisemita “per principio e spirito sportivo” Wiedeman, che
finisce per “prendersi bestialmente per i capelli” col commerciante
ebreo Sonnenschein. “Una scena d’orrore da far pietà. Si accapigliarono
come ragazzini, ma con la disperazione degli adulti quando giungono a
tanto” (p. 678). Che susciterebbe ilarità – se questa era l’intenzione
dell’autore, ma ancora una volta conta di più l’impressione sul lettore
– se non fossero seguite Kristallnacht e l’Olocausto. Si conclude
invece subito, e non a scoppio ritardato, in tragedia il duello così
comicamente introdotto tra Settembrini e Naphta. Settembrini, da
gentiluomo e pacifista qual è, spara per primo, e tira verso il cielo.
“ ‘Lei ha sparato in aria’, disse Naphta dominandosi e abbassando
l’arma. Settembrini rispose: ‘Io tiro dove mi pare’. ‘Lei sparerà
un’altra volta’. ‘Nemmeno per sogno. Ora tocca a Lei’. ‘Vigliacco!’,
gridò Naphta ammettendo così che ci vuole più coraggio a sparare che a
farsi sparare addosso; e alzata la pistola in modo che non aveva più
nulla a che fare col conflitto, si sparò alla tempia”(p. 698). Siegmund
Ginzberg

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