Friday, January 20, 2006

E' ora che si discolpi Golia

venerdì 20 gennaio 2006, Il Foglio
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Da qualche tempo provo l’impulso a rigurgitare ricordi. Mi si perdoni il verbo volgare, ma è proprio quello che descrive perfettamente la situazione. Ad esempio, mi è successo recentemente, a proposito di un dibattito sulla rivista “Primato”. Ho visto giustificare con supponenza una marmaglia di opportunisti che, dopo essersi sporcata con le peggiori compromissioni nella politica razziale fascista, era stata lavata alla candeggina dall’amnistia togliattiana, quindi assurta a gotha dell’intellettualità e di nuovo oggi esaltata come crema della cultura italiana. E mi è tornata in mente la memoria di tante persone di ben altra levatura intellettuale massacrate da quei personaggi e dal cinismo con cui è stata traghettata la classe dirigente di questo paese. I ricordi possono stare fermi sul fondo in nome del sano desiderio di vivere nel presente e per il futuro. Ma se qualcuno ti ripropone una menzogna che, per giunta, offende di nuovo gli offesi, allora i ricordi rigurgitano. Così mi è tornato in mente il caso di un illustre professore intellettuale antifascista e comunista che non trovò di meglio che assolvere l’ex Capo dell’Ufficio Razza del Minculpop col dire che era tanto bravo a trovar soldi.
Quello era un piccolo campione di ricordi assopiti. Ne usciranno fuori altri? Dopo aver letto l’intervento di Clara Sereni su L’Unità – “La colpa di essere Ebrea” – temo proprio che non soltanto ciò possa accadere, ma che ciò debba accadere, per una sorta di dovere civile ed etico.
Ho molta simpatia per Clara Sereni, anche se non la conosco di persona. Ci accomunano non soltanto la generazione e il tipo di esperienze, ma ricordi comuni. Mio padre era grande amico di Enrico Sereni, suo zio, e della sua famiglia che frequentava assiduamente da giovane, e tante tante volte ho sentito racconti da lui al riguardo. Ricordo, ad esempio, quando mi raccontava di Emilio Sereni che, da molto giovane e prima di diventare fervente comunista, era non soltanto sionista ma credente, girava per casa con la kippà e il libro di preghiere in mano. Evoco questo ricordo perché porta al tema che è al centro dell’intervento di Clara Sereni: la difficoltà di conciliare un’identità ebraica con una militanza comunista. È un problema che hanno vissuto tutti i dirigenti comunisti che non hanno accettato di sopprimere totalmente ogni legame con la loro identità ebraica, come fu il caso di Umberto Terracini. Nella mia modesta esperienza l’ho vissuto anch’io per lunghi anni ed è chiaro che Clara Sereni lo vive ancora e con tormento.
Nel suo intervento Clara Sereni denuncia due episodi che l’hanno ferita – e quanto duramente è facile capire da come ne parla! – l’uno pubblico e l’altro privato: essere stata presentata a una tavola rotonda della CGIL come “ebrea e scrittrice” e l’aver dovuto ascoltare, durante un pranzo di compleanno di amici di sinistra, espressioni di vero e proprio pregiudizio antiebraico.
Capisco il suo turbamento e le esprimo la mia solidarietà. Ma mi chiedo: delle due l’una, o il livello di pregiudizio antiebraico ha raggiunto nella sinistra livelli esplosivi, oppure Clara Sereni è in stato di catalessi da qualche decennio. Precisamente dal 1967, da quasi quarant’anni.
Non dico che già prima non vi fossero aspetti a dir poco equivoci nell’atteggiamento del movimento comunista nei confronti della questione ebraica. Al contrario, tutto nasce di lì. Valga per tutti il silenzio attorno alle politiche razziali fasciste, attorno alla “congiura dei medici ebrei” inventata da Stalin o la complicità nel caso Slansky. Anzi, il recente dibattito sull’amnistia togliattiana mi induce a ritenere che vi sia un terreno ancora tutto da scavare. Ma è innegabile che, fino al 1967 – alla Guerra dei Sei Giorni e alla rottura totale dell’URSS nei confronti di Israele – aveva prevalso un linguaggio, a suo modo, “politically correct”. Quando, nel 1967, inviammo in molti a L’Unità una lettera di protesta per la scelta israeliana, la risposta privata del direttore Maurizio Ferrara fu dura e negativa, e tuttavia, anche oggi, non mi è dato leggervi una sbavatura fuori dal terreno prettamente politico.
Da quel momento le cose iniziarono a prendere una piega sempre più brutta. Lasciamo perdere l’analisi storico-politica e consentiamoci un piccolo rigurgito, il ricordo di un episodio analogo a quello narrato da Clara Sereni. Era la fine degli anni settanta, ed ero in vacanza nel paesino di Ginostra (isola di Stromboli), che ero fra i primissimi ad aver scoperto, portandovi gruppi di amici di sinistra, che poi si ampliarono esponenzialmente fino a trasformarlo in un affollato luogo di vacanza militante. Scenario: una cena di una ventina di ragazzi sessantottini sul terrazzo di una tipica casetta cubica bianca, nel buio illuminato da qualche lampada a petrolio. A un certo punto, tra una chiacchiera e l’altra, un “compagno” toscano prorompe in un’invettiva violentissima contro gli ebrei: capitalisti, sanguisughe, imperialisti, assassini del proletariato, e chi più ne ha più ne metta. Reagisco indignato, definendo il suo linguaggio come fascista e razzista, certo di trovare ampia solidarietà, e… sorpresa… mi trovo nell’isolamento più assoluto. Nessuno mi difende, nemmeno i più cari amici. Anzi, la mia reazione viene condannata come spropositata. Alla fine, scornato e umiliato, abbandono polemicamente la compagnia e vado via da solo, sul sentiero buio con la torcia, seguito soltanto dalla mia fidanzata, verso la nostra casetta, dove più tardi vengo raggiunto dagli amici. Costoro non trovano di meglio che sottopormi a un processo tra la psicanalisi e la politica, mettendo sotto accusa il mio attaccamento “morboso” alle radici ebraiche che non mi permette di assumere il necessario “distacco”, e di ammettere con “oggettiva serenità” le colpe che gli ebrei indiscutibilmente hanno sullo scenario del mondo. Cerco disperatamente la solidarietà di un giovane “compagno” tedesco che risponde freddamente: «Noi tedeschi abbiamo fatto cose troppo brutte agli ebrei perché io possa dire liberamente quel che penso». Coro trionfale: «Hai visto!».
Potrei raccontare tanti altri episodi del genere, pranzi e cene come quelle di Clara Sereni, a suon di «Come mai voi ebrei siete quasi tutti commercianti?». Sarà per un’altra volta. Per ora mi limito a dire che l’episodio di cui sopra mi servì a capire una volta per tutte una cosa: che potevo scegliere di restare nella sinistra comunista o uscirne ma, qualsiasi cosa avessi fatto, ai razzisti e agli antisemiti occorreva rispondere soltanto con un calcio – ovviamente verbale – nei denti e, se non basta, nel sedere. È l’unica pedagogia che può svegliare la coscienza di coloro che sono in buona fede. Ed è l’unico modo di salvare la propria dignità e integrità, la verità e la giustizia. Quel che certamente avevo appreso è che non è possibile lasciarsi colpevolizzare, subire la richiesta inaudita di dover fare un atto di discolpa. L’ha capito questo Clara Sereni? Non pare, visto che dice: «come tante altre volte, ho dovuto, come ebrea, fare il mio “Radames, discolpati”». “Tante” altre volte? L’ha fatto tante altre volte, e l’ha rifatto ancora questa volta senza trovare innaturale assoggettarsi a un simile infame ricatto?
Per parte mia, il decennio abbondante di militanza comunista che seguì all’episodio ginostriano – e che fu tutt’altro che facile – terminò proprio quando venne l’epoca delle richieste pubbliche di discolpa. Se ne ricorda, Clara Sereni? Fu l’epoca della guerra del Libano, nel 1982, quando a sinistra si chiedeva e richiedeva a gran voce agli ebrei di tutto il mondo di dissociarsi da Israele e di ottenere un salvacondotto di rispettabilità attraverso una condanna del governo Begin. Rosellina Balbi denunciò con forza questa intollerabile pretesa in un memorabile articolo su La Repubblica: “Davide discolpati”. Altro che Radames… Fu un periodo cupo. Le umilianti giaculatorie di un certo numero di ebrei di sinistra non servivano a placare le arroganti richieste di dissociazione. E a forza di fomentare l’odio venne l’evento nefando: nel corso di un corteo dei tre sindacati confederali venne deposta una bara davanti al Tempio maggiore di Roma. E, infine, in questo clima di sordida ostilità, il terrorismo palestinese prese il coraggio di compiere l’assalto armato al Tempio che vide l’uccisione del piccolo Stefano Taché.
A ventiquattro anni di distanza ancora Clara Sereni non ha assimilato quella lezione e accetta di sottoporsi alla pratica umiliante della “discolpa”? Occorre forse rispiegare perché non dovrebbe? Non discuto il suo legittimo diritto di continuare ad essere comunista e di difendere l’attualità di Marx (il che mi fa venire in mente quanto diceva nel 1989 il mio amico scrittore Alberto Lecco: «Il comunismo è finito? Vedrete… Comincia adesso…). Non discuto la legittimità dei suoi giudizi su Israele e sulla questione palestinese. Siamo su posizioni diversissime, ma questo è irrilevante. Appunto: che c’entra? Perché mai, per conquistarmi il diritto a non essere afflitto da tirate antisemite, debbo fare una fede di professione comunista, antisionista, filopalestinese e dimostrare di essere un “ebreo buono”? Insomma, perché, per non essere colpito dal razzismo, debbo legittimare il razzismo? Non si rende conto Clara Sereni che questo è esattamente l’atteggiamento umiliato e umiliante che assunsero gli ebrei “camerati” del gruppo torinese de La Nostra Bandiera negli anni trenta, che, con le loro sviscerate professioni di fede fascista (peraltro perfettamente sincere!) speravano di esorcizzare il montante antisemitismo del regime e persino le leggi razziali? Perché Clara Sereni si sottopone a questi avvilenti ricatti tipici di ogni forma di totalitarismo? Non si rende conto che, se c’è ancora gente che non si vergogna di chiedere queste discolpe, e non si avvilisce a vederle fare, aveva ben ragione Alberto Lecco: il comunismo, quello stalinista cattivo, è vivo ed è fra di noi.
A ventiquattro anni dalla campagna “Davide, discolpati”, Clara Sereni, invece di continuare a sottoporsi al ricatto, a “giustificarsi di essere ebrea”, a lasciarsi brutalizzare neanche più nelle vesti di David ma in quelle di Radames, dovrebbe intimare ai Golia razzisti: discolpatevi voi della vostra infamia, e vergognatevi, se ne siete capaci.
Tutto il suo intervento è intriso di patetiche illusioni. Si può davvero credere di ammorbidire i cattivi ripetendo la solita giaculatoria anti-sharoniana (“la politica del governo Berlusconi ha spiaccicato ebrei e Italia sulla politica di Sharon”). Che senso ha, mentre mezzo mondo ha fatto ammenda dei luoghi comuni su Sharon, continuare con la tiritera su Sharon boia? E perché mai la mossa di apertura verso Israele del ministro degli esteri Fini sarebbe stata efficace ma “scorrettissima”? Dove sta la scorrettezza? Nel non essere rimasto fedele a un’ortodossia fascista? Perché bisogna dire delle cose senza senso per non lasciar dubbi sulla propria ortodossia di sinistra?
Infine, forse l’illusione più patetica è tentare di convincere la sinistra a voler bene agli ebrei, per non regalarli alla destra e perdere le elezioni. Gli ebrei sono quattro gatti, ammette Clara Sereni, ma le elezioni si vinceranno per pochi voti, e quelli ebraici potrebbero essere decisivi. Ora, posto che su 30.000 ebrei non sono pochi quelli che voteranno per il centro-destra, quale sarebbe lo spostamento possibile:1000 o 1500 voti? E la sinistra, se non ci sta a voler bene agli ebrei per intima convinzione, dovrebbe mostrarsi benevola per l’opportunità di non perdere quel migliaio di voti? Me le immagino le sghignazzate dei commensali antisemiti di Clara Sereni… Peraltro, dopo aver fatto ricorso a un simile argomento, l’unica risorsa disponibile sarebbe mettersi in ginocchio e supplicare piangendo.
Capisco perfettamente l’ansia di Clara Sereni di perdere il rapporto con la sinistra, il suo attaccamento alla sua identità progressista. Ma la domanda è: qual è il modo più costruttivo e dignitoso per mantenere un rapporto autentico e realmente proficuo con quel mondo?
Per rispondere vorrei tornare a quel lontano 1982. Dopo la deposizione della bara davanti al Tempio maggiore di Roma, lo scandalo che ne seguì fu aggravato dalla reticenza delle dirigenze sindacali e, in particolare, dall’atteggiamento a dir poco ambiguo dell’allora segretario della CGIL Luciano Lama. Per me e per tanti altri fu la goccia che fece traboccare il vaso. Scrissi una lettera di sette pagine contro Lama che, in tutto o in parte, fu pubblicata da parecchi giornali e, con altri, promossi un appello che fu pubblicato su Repubblica col titolo “Lama e gli ebrei”. Ciò mi costò l’ostracismo di tanti ex-compagni. L’avviso venne da alto loco e fu perentorio: se non si ritira la lettera e l’appello la rottura è totale. Ancor oggi c’è gente che attraversa la strada se mi vede arrivare sullo stesso marciapiede. E appena qualche anno fa, quando raccontai queste vicende nel libro “La questione ebraica oggi”, venne fuori qualche maggiordomo della memoria di Lama a sostenere che quel che dicevo era falso, che Lama si era al contrario adoperato a condannare l’atto della deposizione della bara, che non aveva mai detto nulla di lontanamente equivoco. Insomma, ero io il fazioso, il rissoso e il calunniatore e il povero Lama era il crociato in difesa degli ebrei. Da non potersi credere. Riandai a leggermi l’appello pubblicato su La Repubblica pensando di essere ormai in preda all’Alzheimer. Diceva una cosa durissima: che il commento di Lama era «reticente e tale da offrire copertura [sic!] a quanti si sono resi responsabili di quegli atti», che erano definiti senza mezzi termini «neonazisti» e non accidentali bensì «pensati e organizzati». E sapete quali firme c’erano in calce a quell’appello? Fra le altre, quelle di noti proto-berlusconiani come Massimo Cacciari, Aniello Coppola, Giacomo Marramao, Claudio Pavone, Mario Pirani, Beniamino Placido, Luigi Spaventa. Eppure, nel 2002, ero diventato io l’unico cattivo e fazioso. Una tecnica arcinota e collaudata, quella della demonizzazione e dell’isolamento del reprobo, codificata dall’immortale maestro Josif Vissarionovic Dugasvili.
Ciò detto, ho forse perso qualcosa agendo in questo modo? Non credo proprio. Che perdita è mai quella della finta amicizia di gente di quella fatta? Era meglio non perdere il saluto dell’allora segretario della sezione universitaria del PCI (che ancora fa finta di non conoscermi) oppure sentirsi riconoscere pubblicamente da Piero Fassino che la mia “furia iconoclasta” è servita a stimolare riflessioni utili e costruttive? Era meglio tenersi buoni gli intellettuali che parlano di razza ebraica, o stabilire un dialogo fertile e costruttivo con persone come Giuseppe Caldarola e Umberto Ranieri? Esiste e cresce una sinistra aperta, attenta e senza pregiudizi sulla questione israeliana e sulla questione ebraica. Con questa bisogna parlare e non amareggiarsi i pranzi con la gentaglia: esistono pur sempre le porte per andarsene e ottimi ristoranti. Cara Clara Sereni, chi cova i pregiudizi di cui lei racconta non è certamente una persona “per bene” e, se è “di sinistra”, non cambia nulla: a destra e a sinistra i razzisti sono la stessa pasta di mascalzoni.
So bene quanto certi percorsi siano difficili e tortuosi. Sono l’ultimo a pretendere di giudicare, tanto meno di condannare. Ma ogni percorso nel deserto deve prima o poi finire nella terra promessa. Che è quella in cui si vive con una coscienza libera e, tra il partito-che-rappresenta-il-destino-storico e la verità, si sceglie la verità.

Giorgio Israel

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