Saturday, December 17, 2005

Il multiculturalismo è multirazzismo (però buonista)

Da il foglio 16 dicembre 2005 - pag 2

E’una storia vera, realmente accaduta, come
altre analoghe. Un bimbo africano
adottato fin da piccolo da una famiglia italiana
viene ripetutamente molestato a scuola. I
suoi compagni di classe lo chiamano “scimmia”.
Il bambino è scosso, disperato, i genitori
protestano, s’incontrano con gli insegnanti
e con i genitori degli altri bambini. Questi ultimi
escludono vivacemente che vi siano sentimenti
razzisti in circolazione. “E’ così difficile
capirsi tra ‘diversi’… – protestano – non
sarebbe il caso di organizzare degli incontri
per scambiare la conoscenza dei rispettivi usi
e costumi? La cosa più carina sarebbe organizzare
delle cenette in cui ognuno fa gustare
all’altro le proprie specialità etniche…”. In
realtà, il nostro bimbo parla romanesco e
adora la pizza e gli spaghetti. Perché mai dovrebbe
rompersi la testa a cucinare il kunde,
il kaklo o il riso al cocco, e provarne il sapore
per lui inusuale, mentre i suoi compagni lo
introducono alle meraviglie dei bucatini all’amatriciana,
che lui conosce meglio di loro?
Inutile dire che al bimbo africano e ai suoi
genitori la proposta non piace per niente.
Sono storie vere. Storie di razzismo. Di razzismo
buonista, non meno efferato di quello
ordinario, perché ti avvolge subdolamente
con le sue spire carezzevoli e se lo prendi a
calci – come merita – rischi anche di passare
per cattivo. Sono storie che esprimono meglio
di qualsiasi analisi quanto l’ideologia multiculturalista
abbia tracciato un nuovo “rispettabile”
percorso per il razzismo, e minaccia
di farlo diventare senso comune.
Esaminiamo il percorso concettuale che
sta dietro all’atteggiamento di quei genitori.
Si parte dall’assioma della diversità: siamo
diversi, ognuno ha delle radici identificanti,
che è inutile nascondere o confondere, anzi è
meglio che ognuno ne riassuma la consapevolezza
fino in fondo, casomai le avesse improvvidamente
smarrite. In parole povere: se
sei negro (pardon, nero) e non hai cucinato e
mangiato la banana fritta, sbrigati a farlo e a
riacquisire la tua identità occultata: etnico è
bello. Questo percorso consiste nell’indurire
la coscienza etnica, laddove essa non è già
sufficientemente dura, attraverso un processo
di “culturalizzazione”. E allora, dopo che
ci siamo ben assisi ciascuno nella propria
identità etnico-culturale, che abbiamo occupato
il posto che ci è stato assegnato nel mondo
della multiculturalità, con tanto di biglietto
numerato, resta da passare al processo interattivo,
al dialogo, all’“interculturalità”.
Nella fattispecie, fare un assaggio incrociato
di bucatini all’amatriciana e di riso al cocco.
Per tale via creeremo la società della mutua
tolleranza. Per l’intanto – notiamo noi – ci siamo
divisi più di quanto lo fossimo stati.
Non è necessario molto sforzo per ricostruire
questo percorso concettuale: basta
consultare gli scritti “teorici” degli operatori
del multiculturalismo, non di rado formulati
come concreti programmi d’intervento politici
e gestionali. Si parte dall’assunzione apodittica
che le nostre società, le nostre città sono
un “mosaico” di etnie, e pertanto si assume
come dato di fatto una condizione di
“multietnicità”; quindi si individua come primo
passo per rompere le “barriere”, la trasformazione
della multietnicità in “multiculturalità”,
ovvero nientemeno che l’indurimento
delle identità; il terzo passo consiste
nel lanciare “ponti” di dialogo mediante
l’“interculturalità”.
Se queste dottrine pretendono di diventare
senso comune e addirittura orientamento
di attività pratiche, diventa un dovere osteggiarle,
perché si tratta di dottrine razziste. Difatti,
i capisaldi concettuali che abbiamo appena
visto sono la prova inequivocabile che
il vecchio razzismo tradizionale e le dottrine
multiculturaliste sono le facce della stessa
medaglia. Abbiamo visto che il dato di partenza
è che la realtà sociale è costituita da un
“mosaico di etnie”. Notiamo di passaggio che
questa visione è oltretutto ignorante, perché
presenta come un fatto nuovo la coesistenza
di identità diverse, come se la Roma imperiale
non fosse pullulante di ancor più identità
di quanto non lo sia l’attuale, e la globalizzazione
fosse un fatto del tutto nuovo, e non
un processo che caratterizza tutta la storia
dell’umanità (il vino e lo strudel sono esempi
di globalizzazione alimentare ben prima della
Coca-Cola). Certo, le forme attuali della globalizzazione
– soprattutto economica – hanno
caratteristiche nuove e pervasive, ma si tratta
comunque di un discorso che merita ben
altra cautela della asserzione di una rottura
totale tra passato e presente. Comunque, l’idea
del “mosaico di etnie” è il cuore di una
visione razzista. Un razzista tradizionale
avrebbe detto che l’umanità è un “mosaico di
razze”, magari composto dei tre tipi fondamentali
di Gobineau. Che poi per qualcuno
l’incrocio razziale sia il male – la fonte della
degenerazione – e per altri sia invece il bene,
cosa cambia? Ci si divide sui gusti ma si è
d’accordo sulle premesse e cioè sul carattere
razzialmente segmentato dell’umanità.
Il “cerchio infernale”
Ma – si dirà – qui non si parla di razze, bensì
di etnie. Il guaio è che questo non migliora
affatto le cose. Il concetto di etnia è più complesso
e ambiguo di quello di razza, perché
non si basa come il primo sul determinismo
biologico, bensì ricorre a un insieme di fattori
eterogenei: biologici, linguistici, sociali, fino
agli aspetti ideologici e di autorappresentazione.
Trattasi di fattori che possono essere
in parte assenti – un’etnia può caratterizzarsi
per una forte identità religiosa o culturale
senza unità linguistica o senza tratti somatici
caratteristici – e che comunque si collocano
a livelli molto diversi e incommensurabili fra
di loro. Mantenere separati questi fattori è essenziale
perché, come ha osservato Lévi-
Strauss, il “peccato originale dell’antropologia”
consiste nella confusione tra fattori biologici
e produzioni sociologiche e psicologiche
delle culture, la quale è all’origine del
“cerchio infernale” che ha condotto alle ideologie
razziste. Ed per questo che non pochi
antropologi sono diffidenti nei confronti del
concetto di etnia e considerano l’opportunità
di sbarazzarsene. Chi conosca la storia delle
dottrine razziali sa che esso è parente stretto
di quel concetto di “stirpe” con cui il cosiddetto
“razzismo spiritualista” italiano del periodo
fascista tentò di proporre una versione
non biologistica e più “accettabile” del razzismo.
Come che sia, una prescrizione essenziale
è non considerare le etnie come formazioni
omogenee e confrontabili – come se tutte
possedessero lo stesso tipo di componenti
e caratteristiche, materiali, sociali o ideologiche
– pena il ricadere nel “circuito infernale”
di cui sopra. I tasselli di un mosaico hanno
tutti lo stesso spessore e quasi tutte le stesse
caratteristiche, mentre nulla del genere
può dirsi per le etnie. Pertanto, la nozione di
“mosaico” (etnico o razziale che sia) fa rientrare
direttamente nel “circuito infernale”.
Un modo per immiserire l’umanità
Il multiculturalista predica il confronto tra
etnie su basi culturali. Pertanto ha necessità
di un insieme di dati omogenei e di compiere
un’operazione. La necessità deriva dal fatto
che, per essere confrontabili, le etnie debbono
esibire ciascuna tutte le possibili caratteristiche,
nessuna esclusa: somatiche, culturali,
culinarie, di abbigliamento, di religione,
di lingua eccetera. Perciò, il bambino “africano”
della nostra storia, per confrontarsi
con i suoi compagni “italiani”, deve esibire
tutte le “sue” caratteristiche: se non sa cosa
sia il riso al cocco, è bene che lo impari al più
presto, e che impari anche la “sua” lingua, e
via dicendo. E, per rendere possibile il confronto,
le caratteristiche etniche debbono essere
acquisite ed esibite in forma consapevole
e strutturata: in una parola, debbono essere
trasferite nella dimensione “culturale”.
Ma la codificazione “culturale” delle differenze
è esattamente il modo per cristallizzarle:
il bambino “africano”, per potersi far
accettare dai suoi coetanei “italiani” è costretto
– sottilineiamo, costretto – a strutturare
la sua identità attorno allo zighinì o alla
banana fritta, e a imparare e a proporre i
“suoi” canti tradizionali. Mentre gli altri risponderanno
a suon di pizza e di funiculì funiculà.
Scappa da ridere. Ma è un dramma.
Perché di qui nasce la società comunitarista,
la società delle divisioni, del razzismo e della
violenza. Difatti, come scriveva Amarthya
Sen il 2 dicembre sul Corriere della Sera, “la
violenza è alimentata dal senso di priorità
che viene dato a una pretesa identità. Quando
arruolavano gli hutu per ammazzare i tutsi,
alle reclute potenziali veniva detto che
erano hutu e non anche kigaliani, rwandesi,
africani ed esseri umani”. Già, esseri umani…
Il guaio è che i multiculturalisti sono riusciti
a far diventare senso comune l’idea che
l’umanesimo sia vuota retorica, mentre le loro
visioni sarebbero ispirate a un realismo
che rispetta le identità conciliandole tra di
loro. E hanno occultato il fatto che, al contrario,
la loro dottrina è quanto mai miserabile,
non nel senso offensivo del termine, ma in
quello testuale: perché immiserisce la straordinaria
e infinita ricchezza con cui si manifesta
l’umanità, riducendola a un conglomerato
finito di monadi cristallizzate nella loro separatezza.
Non vedono e non vogliono far vedere
quale straordinario e variegato succedersi
di identità sempre diverse per natura e
caratteristiche ci offra la storia umana, nel dispiegarsi
di una fantasia senza limiti: un
“continuum” – non un mosaico, non un “discreto”
– di formazioni, ciascuna caratterizzata
da aspetti diversi, un emergere incessante
di nuove identità. E’ proprio questa visione
aperta che include anche la possibilità
della riscoperta e del recupero (per libera
scelta, però!) di parte o tutto delle proprie radici.
Il multiculturalista non coglie che il
bambino di origine africana, di colore, ma
che parla in un dialetto napoletano o siciliano
e ha abitudini alimentari della terra d’adozione,
e tante altre caratteristiche di infinita
varietà, è una nuova identità dinamica, è
uno straordinario e originale frutto di quella
continua creazione di nuovo che si manifesta
nei processi sociali umani. No, secondo lui,
per essere “accettato” egli deve essere inchiodato
alle caratteristiche ricavabili dalla
sua storia anagrafica, deve essere incasellato
nella sua “etnia”. Di qui le orride prescrizioni
“interculturali”, che imboccano la via opposta
a quella più naturale e giusta: spiegare
ai bambini che lo chiamano scimmia, che siamo
tutti esseri umani, spiegare le cause che
producono certe differenziazioni somatiche,
e altre differenze di altro genere, mostrarne
l’inessenzialità rispetto a ciò che ci accomuna.
E’ davvero impossibile spiegare a un bambino
che le razze non esistono, smantellare i
pregiudizi pseudo-scientifici che ci si sono attaccati
addosso come concrezioni? Non è così
difficile. Quantomeno, se si crede ancora
alla possibilità dell’“insegnamento”, non ridotto
alla trasmissione di formulette miserande
da bazar della subcultura.
Parlavamo di concrezioni difficili da scalfire.
Ci si provi a dire “apertis verbis” in pubblico
che le razze non esistono. Ci si troverà
di fronte a reazioni tra lo scandalizzato e lo
stupefatto, anche da parte di persone moderate,
aperte, “progressiste”. Ti dicono: “Ma
come! Non è un dato di fatto che io sono bianco
e quelli sono neri come la pece, e quegli
altri gialli col naso schiacciato?” Devi spiegargli,
contrastando mille pregiudizi, che la
gamma dei colori che puoi trovare nel mondo
è praticamente infinita, un continuo, che
la gamma delle forme dei nasi è infinita, e così
via; devi spiegargli che è impossibile fondare
le differenze su basi genetiche. Quasi tre
secoli di pregiudizi razziali, sostenuti da
un’autorità “scientifica” che non era altro
che un cumulo di assunti ideologici, ci hanno
lasciato in eredità una crosta spessa di pregiudizi
straordinariamente difficile da scalfire:
nel perverso intreccio tra antropologia fisica
e genetica delle popolazioni si è fondato
un complesso dottrinario che si è ammantato
di vesti “scientifiche” mentre non era altro
che un conglomerato di preconcetti. Tanto
più è necessario impugnare lo scalpello, invece
di ricominciare a imboccare sentieri
perversi già funestamente percorso con il
concetto di razza.
Dovrebbe essere superfluo dire che il concetto
di “identità” non ha in sé nulla di negativo.
Al contrario. Non vi è mai stato nulla di
creativo nella storia dell’umanità che non sia
stato connesso all’affermarsi di identità, e
spesso di identità forti. Con il che non s’intende
certo identità “pure”: dovrebbe essere
superfluo dirlo, ma purtroppo non è così. L’identità
culturale dell’uomo rinascimentale
non era altro che un conglomerato di apporti
e recuperi culturali fra i più lontani e disparati,
ma sintetizzati da una visione forte e
proiettata verso un fine ben definito. Una società
vitale – anzi, una società degna di questo
nome – deve avere come perno un’identità
dominante capace di orientarne lo sviluppo
e stabilire i principi della convivenza civile.
Questa identità dominante non deve essere
sentita come qualcosa di chiuso, di esclusivo,
o addirittura proteso a sanzionare la contrapposizione
dell’“uno” contro l’“altro”; deve
essere un’identità aperta, inclusiva, che
propone il proprio modello in modo tollerante
e rispettoso, tendente a dissolvere i fattori
di contrapposizione e ostilità. La forza di un’identità
aperta e vitale sta proprio nel non
aver bisogno di caratterizzarsi in senso negativo,
ovvero sulla sola base della sua diversità
dagli “altri”. Il multiculturalismo ha invece
come pilastro la contrapposizione fra il “noi”
e il “voi”, e quindi, sotto lo schermo di un sorriso
tollerante e buono, cristallizza una divisione
irriducibile. Al contrario, un’identità vitale
si fonda soprattutto su principi e ideali
solidi da proporre e propugnare e attorno ai
quali federare una società. Per questo il multiculturalismo
alligna soprattutto nelle università
dell’occidente e dilaga in Europa: perché
è il simbolo di un’identità che non crede
più in se stessa e nella propria capacità di
proporre prospettive e ideali e ripiega verso
la visione di una società segmentata e divisa
in aree comunitarie che dovrebbero rispettarsi
a vicenda quanto più non interferiscono
e finiscono, com’è naturale, con l’odiarsi. Tanto
più che oggi, fra queste identità, ne emerge
una – l’integralismo islamico – che si pretende
forte e capace di riempire tutti gli spazi
lasciati liberi. Tariq Ramadan l’ha detto
chiaramente: solo l’islam è capace di riempire
il vuoto spirituale e ideale dell’Europa.
Che risponde a questa sfida con la miseria
multiculturalista, ovvero accettando di fatto
questi propositi e tutte le loro conseguenze.
L’occidente è solo questo?
Ma è proprio vero che l’identità europea
non ha più nulla da dire, se non acconciarsi,
con il multiculturalismo, alla deriva verso
quello che ci ha prospettato la recente esperienza
francese, verso quel che aveva previsto
Lévi-Strauss nel 1971, “tensioni tali che gli
odii razziali offriranno una misera immagine
del regime di intolleranza esacerbata che rischia
di instaurarsi, senza che le differenze
etniche debbano neppure servirgli di pretesto”?
Lo si può ammettere soltanto accodandosi
alla corrente egemone di quella cultura
accademica europea e statunitense che ha
fatto delle teorie di Edward Said il proprio
vangelo. Dobbiamo ammettere, con Said, che
l’identità europea e occidentale sia stata una
semplice costruzione basata sulla contrapposizione,
all’“altro”, all’orientale; e quindi che
sia stata soltanto orientalismo? Dobbiamo
quindi ammettere che, poiché l’orientalismo
sarebbe stato il motore dell’imperialismo e
del razzismo europeo, l’identità occidentale
è nient’altro che imperialismo e razzismo, e
che, dietro le parvenze di un falso umanesimo,
tutte quelle costruzioni che riteniamo come
grandi realizzazioni dell’identità europea,
siano soltanto orrore? Colonialismo, razzismo,
imperialismo: questo sarebbe l’occidente,
e nient’altro? Buona parte della cultura
occidentale si è accodata dietro queste teorie
per coltivare quel che François Furet ha
chiamato l’“odio di sé”. E’ una letteratura vastissima.
In fondo, “Impero” di Negri e “Guerra”
di Asor Rosa non sono altro che un commento
a Said. E ad essa non vale opporre una
sorta di controcanto a Said, come fanno semplicisticamente
Buruma e Margalit nel loro
“Occidentalismo”, senza mai spiegare cosa di
quella tradizione possa ritenersi valido.
Sono teorie che vanno respinte in primo
luogo perché costrutti ideologici senza serio
fondamento storico. E, in secondo luogo, perché
l’identità europea ha avuto qualcosa di
positivo e vitale da proporre indipendentemente
dal suo definirsi contro l’“altro”.
Non nascondiamocelo. La ricerca delle
“radici” ha sempre qualcosa di equivoco. Il
Soldati italiani
Ma cosa si saranno detti i piloti
che bombardavano Belgrado:
“Poverini, li abbiamo centrati”?
Chiesa catodica
A Bologna va in onda la storia
del Concilio Vaticano II rivista da
Melloni con gli occhi della Rai
rifiuto della caricatura tragico-comica della
storia dell’occidente che ci forniscono i multiculturalisti
non può consistere in una rivendicazione
di bandiera delle glorie del
passato. Non ci stancheremo di ripeterlo: sarebbe
un errore tragico impigliarsi in un’impossibile
tentativo di assoluzione degli autentici
e indiscutibili orrori della storia europea.
Ma sarebbe altrettanto folle dimenticare
che, se le religioni monoteiste hanno
avuto il torto enorme di essersi arrogate il diritto
di imporre con la forza il loro messaggio,
nondimeno è nella tradizione ebraica e cristiana
che si è affermata l’idea della dignità
dell’uomo, del rispetto della persona, una visione
umanistica improntata all’idea di progresso.
Né sarebbe saggio dimenticare che
non è stato un torto, bensì un merito, dell’Illuminismo
aver propugnato sul terreno “laico”,
più precisamente “non religioso”, quelle
idee e quelle visioni, di averle tradotte in
principi della convivenza associata, persino
sotto forma costituzionale. E’ stato suo torto
piuttosto quello di pretendere di costituire
una dottrina dell’uomo su basi scientifiche,
cristallizzando in tipi (o razze) ben definiti i
gruppi umani da “emancipare”; di aver preteso
di definire le modalità scientifiche per
redimere i popoli in stato provvisorio di inferiorità.
Quando l’Abbé Grégoire scriveva, nel
1789, il suo saggio sulla “rigenerazione fisica,
morale e politica degli ebrei” mescolava un
sentimento indiscutibilmente nobile – e che,
non a caso, convinse gran parte degli ebrei
d’Europa ad assimilarsi alla cultura dominante
– con una pericolosa caratterizzazione
fisica e morale del “tipo” ebraico. Noi non risponderemo,
con il multiculturalista, che l’ebreo
andava lasciato nel ghetto (sia pure un
ghetto dorato). Diremo al contrario che una
visione umanistica è incompatibile con qualsiasi
cristallizzazione delle differenze e che
quindi bisogna ricominciare da dove si è sbagliato,
con un’opera di resezione e ripensamento
di quei principi che la civiltà europea
ha offerto come base di ogni possibile convivenza
civile, ancor oggi validi.
Non può essere compito di un articolo neppure
abbozzare questa opera di resezione.
Ma appare evidente come vada gettato lo
sguardo in quell’infernale intreccio di reazioni
e controreazioni che si è prodotto, a partire
dall’inizio dell’Ottocento, tra scientismo
e romanticismo e che ha finito col porre al
centro un’unica sciagurata posta in gioco: la
rigenerazione totale dell’uomo, la palingenesi
della società e dell’umanità, in contrapposizione
a una visione realista e tollerante delle
vicende umane. Un ideale palingenetico
oscillante tra la pretesa di una ricostruzione
scientifica dell’uomo e della società e quella
del ritorno alle radici di un’umanità perduta
e incorrotta, mito inesistente il secondo quanto
è irrealizzabile il primo, entrambi fonte
delle tragedie del Novecento.
L’umanesimo non è di moda
Un ritorno a una visione umanistica è
quindi l’unica via di rigenerazione di un’identità
europea altrimenti destinata a essere
stritolata tra la guerra di civiltà che le è stata
dichiarata e il suo odio di sé: una visione
umanistica che ha saputo coniugare un progetto
di conoscenza e di progresso con il principio
della dignità dell’uomo ispirato ai principi
ebraici e cristiani. L’umanesimo non è di
moda. Alain Finkielkraut, nel suo ottimo
“Nous autres modernes” ricorda alcuni passi
del “De dignitate hominis” di Pico della
Mirandola, e individua nell’idea dell’assenza
di limiti per l’uomo il principio che ci ha condotto
a “triturare, suturare e persino sostituire
la natura” e che ci ha posto di fronte a
un’alternativa tra natura e libertà che ci fa
scoprire oggi la necessità dei limiti, alla constatazione
che “i fondamenti biologici dell’esistenza
non debbono essere totalmente a disposizione
dell’uomo, se vuole preservare le
sue speranze di essere libero”. L’idea dell’onnipotenza
è un prodotto della metafisica
cartesiana posta a fondamento della scienza.
Essa è conseguenza della concezione secondo
cui la natura è soltanto una macchina, i
cui principi di funzionamento sono assoluti e
immutabili: essi sono stati stabiliti da Dio una
volta per tutte, dopo di che egli si è ritirato
dal mondo e l’ha abbandonato al suo funzionamento
autonomo. Soltanto l’esilio di Dio
dal mondo poteva concedere all’uomo l’onnipotenza
assoluta, la facoltà di conoscere senza
confini e di manipolare la natura senza limiti.
Questa visione non appartiene all’umanesimo.
Al contrario, il cartesianesimo ha voluto
combattere radicalmente le concezioni
umanistico-rinascimentali, imputando loro la
colpa di una visione monistica del mondo.
Quando Pico della Mirandola afferma che
l’uomo è libero e non ha limiti, mette in luce
soltanto un dato di fatto. Ed è un fatto a noi
reso lampante dagli sviluppi più recenti della
tecnoscienza (cui allude Finkielkraut), che
mirano a toccare il fondo stesso della natura
umana e non conoscono limiti alle loro ambizioni
prometeiche. Osservare il dato di fatto
di questa libertà non significa giustificarne
tutti i possibili esercizi. Pico – esponente
di una visione che mira a riconciliare il razionalismo
greco con lo spiritualismo e la teologia
cristiani ed ebraici – afferma che questa
libertà è stata concessa all’uomo da Dio,
ma che essa non implica di per sé un esito benefico:
“Potrai degenerare in forme inferiori
come quelle delle bestie, o, rigenerato, avvicinarti
alle forme superiori, che sono divine”.
E così ricorda che questa è l’alternativa che
l’uomo ha di fronte e su cui si misura la sua
capacità di scegliere la via per migliorarsi,
oppure la via per ridursi a uno stato bestiale,
credendo che la libertà si realizzi abbattendo
ogni limite, e in tal modo perdendola.
Giorgio Israel

0 Comments:

Post a Comment

<< Home