[Ottolenghi] Il muro, non mi è piaciuto ma ho capito
QUESTO DETTAGLIO È BRUTTO MA VITALE
Ho visto il muro e non mi è piaciuto. Ho visto Gerusalemme viva e senza paura, e ho capito
Di Emanuele Ottolenghi
Il Foglio, 17 settembre 2004
Inserto 1 e 2
Gerusalemme. La strada che collega Gerusalemme
al mare scende rapidamente
tra aspre, brulle e alte colline in mezzo a
uno stretto wadi (valle) fino a una gola dove
improvvisamente irrompe la pianura. E’
poco dopo questa gola, che si chiama proprio
Porta della Valle – Sha’ar Hagai in
ebraico, Bab el Wad in arabo – che lascio la
strada per immettermi sull’autostrada 6, la
nuova e imponente arteria di traffico che,
una volta completata, attraverserà Israele
da nord a sud. L’autostrada 6 corre lungo la
pianura, a ovest il mare e a est le montagne
di Giudea, oltre alle quali la terra sprofonda
nella deserta desolazione della depressione
del Mar Morto. La geografia qui è impietosa:
fertile, calda e umida la pianura,
dalla quale, pochi chilometri a est, la terra
sale improvvisamente, con colline sempre
più alte e pietrose, separate da profonde e
strette gole. Finisce improvvisamente la vegetazione
e iniziano la pietra e la polvere,
che brillano bianche nel cocente sole estivo.
E’ lì, lungo il primo tratto d’autostrada
costruito che appare la barriera. L’autostrada
corre lungo il vecchio confine, sul lato
israeliano, lambendolo a volte. Sono nel
centro d’Israele, molto vicino al mare. Tra
la linea verde e la costa ci sono non più di
quindici chilometri. Qui vicino c’è Netanya,
a mezz’ora di cammino veloce, forse meno,
dalla linea verde, dove un terrorista palestinese
si fece esplodere alla vigilia della
Pasqua ebraica a fine marzo 2002, massacrando
decine di ebrei radunati nella sala
da pranzo del Park Hotel per la tradizionale
cena rituale. E’ poco distante anche Tel
Aviv, anch’essa colpita più volte da attentati.
Poco più a nord Afula e Hadera, dove un
terrorista fece irruzione a una festa di Bar-
Mitzva, l’equivalente ebraico della Cresima,
sparando sui festanti e uccidendone
cinque. Da quando c’è la barriera questa
zona è tranquilla, da mesi non ci sono più
attentati.
Mi fermo a guardare. Sono passate da poco
le otto del mattino. Il traffico scorre, alleggerendo
gli ingorghi attorno alla tangenziale
di Tel Aviv. Lungo l’autostrada la
barriera difensiva è un muro di cemento,
alto e grigio, fiancheggiato da una stretta
strada per le pattuglie che corre lungo l’autostrada.
Del muro, però, ormai si vede poco.
Da dicembre scorso, è stato eretto un
terrapieno dove campeggiano aiuole e fioriere,
e della barriera si vede soltanto la
punta, che emerge appena. Niente fiori dal
lato palestinese, soltanto otto metri in verticale
che i terroristi non riescono a saltare,
e che separa chi con il terrore non ha
nulla a che fare dai lavori giornalieri che
in tempi di pace decine di migliaia di palestinesi
avevano in Israele e che sostenevano
un’economia nei Territori oggi invece
esausta. Qalqilya, città di confine come
Tulkarem, è quasi interamente circondata
dal muro. Prima che gli israeliani lo erigessero,
i cecchini sparavano sulle macchine
in transito. La barriera di rete, che incontro
più avanti, non sarebbe bastata a
fermarne i proiettili. Ora il solo pericolo è
il traffico un po’ aggressivo e un po’ sbadato
di questo paese.
Per un po’ l’autostrada scorre lungo la linea
verde, il vecchio confine provvisorio
che tra il 1949 e il 1967 divise il paese in
due e creò una barriera impenetrabile in
luoghi dove di confini politici non ve n’erano
mai stati, ma soltanto ostacoli geografici.
Ma il muro dura poco, una manciata di
chilometri, fino a che l’autostrada vira verso
nord-ovest allontanandosi dal tracciato
della barriera. Dopo ricomincia la rete
elettronica. Lascio l’autostrada per la prima
tappa della giornata, nel piccolo triangolo,
una zona densamente popolata da
arabi israeliani, quegli arabi che alla fine
della guerra del 1948 si trovarono a far parte
dello Stato d’Israele.
Attraverso rapidamente Baka el Gharbiya
e passo Jatt, che si trova insieme a
Baka lungo la linea verde e ora anche lungo
la barriera. Qui vicino c’è Beisan, oltre il
confine ci sono Baka el Sharkiya, Ziitta e
Dera. Qui, linea verde o no, sono tutti parenti,
tutti membri di clan che il confine ha
separato per i diciannove anni d’occupazione
giordana. La guerra del 1948, con la
sua linea del cessate il fuoco stabilita ca
casualmente
dagli eventi di quel conflitto, li
ha divisi e ne ha determinato diversi destini.
Dal 1967, il confine aperto li ha riuniti.
Ora la barriera li divide di nuovo.
Tutt’attorno ai villaggi della zona ci sono
cooperative agricole e centri residenziali
abitati da ebrei. Nemmeno qui, dove da
quasi sessant’anni i rapporti sono buoni, le
due popolazioni si mischiano. Eppure prima
dell’Intifada gli arabi lavoravano nelle
cooperative e gli ebrei venivano nei villaggi
a comprare prodotti a buon mercato. Gli
arabi fanno i muratori, gli artigiani, gli agricoltori.
Gli ebrei fanno anche loro gli agricoltori
o gestiscono piccole fabbriche o industrie.
Chi ha la terra non lavora per gli
ebrei, ma vende loro i prodotti agricoli. Chi
non ha terra fa il bracciante. Ma ora di lavoro
ce n’è meno, e la fiducia è diminuita. I
rapporti personali sono ancora buoni, ma
di affari se ne fanno meno. E ci perdono
tutti. Le cooperative qui intorno sono laiche
e di sinistra. Tra loro c’è il Kibbutz Metzer.
Erano tutti contrarissimi alla barriera,
nella quale vedevano la sconfitta del principio
di convivenza su cui questa piccola
regione vive e prospera da sempre. Poi,
una sera, nel 2002, un commando palestinese
ha attraversato i campi e le serre, i villaggi
e le strade polverose. Cinque, forse
dieci minuti a piedi dai Territori fino a
Metzer, cooperativa di sinistra che crede e
pratica la convivenza. Il commando penetra
in una dimora scelta a caso, e in pochi
minuti stermina l’intera famiglia, madre e
due figli, tutti bambini neanche adolescenti.
I bimbi li ammazza a letto, nei loro pigiami,
abbracciati ai loro orsacchiotti. Ora
a Metzer non ci si arriva più, né in dieci né
in cento né in mille minuti. Il facile percorso
tra Territori e kibbutz è interrotto
dalla barriera. Il confine, aperto dal 1967 e
annullato da 37 anni d’occupazione e insediamenti,
ora improvvisamente è risorto.
L’economia è peggiorata per tutti
Verde a perdita d’occhio, serre, campi
coltivati e villaggi in lontananza. Mi fermo
di nuovo a guardare la barriera che vi scorre
in mezzo: riappare la rete, con l’imponente
sistema di sicurezza che la attornia:
il filo spinato, un perimetro largo tre metri
coperto di sabbia per identificare rapidamente
impronte di passaggio, una strada
asfaltata per le jeep militari, ancora tre
metri di sabbia e la barriera di rete elettronica.
Metzer era contrario. Ora sono in
molti a sostenere la barriera.
Arrivo a Baka el Gharbiya, cioè la Baka
israeliana. Qui negli anni buoni era un
continuo viavai. Migliaia di lavoratori palestinesi
transitavano per il villaggio la
mattina e vi ripassavano la sera, dopo una
giornata di lavoro in Israele. Nel villaggio
compravano viveri e si fermavano ai caffè
in attesa di essere raccolti dai loro datori
di lavoro. Ora il flusso si è interrotto. Di qui
passavano gli israeliani che andavano a
mangiare e ad acquistare nei Territori.
Non vengono più. L’economia di tutto il
paese ha sofferto negli ultimi quattro anni,
ma la barriera ha colpito gli arabi di Baka
el Gharbiya più dei loro cugini ebrei. Le
bombe qui non esplodevano e quindi la
rabbia per la barriera è grande.
Mi siedo a un caffè e comincio a chiacchierare
con i presenti. Sono le dieci passate,
il sole è alto e fa caldo, ma al caffè un
pubblico di soli uomini di tutte le età indugia
pigramente su una tazza di tè alla
menta. Mahmoud, sessant’anni e sei figli,
gioca con il suo rosario e mi invita al suo
tavolo. Mi racconta dei suoi viaggi a trovare
i parenti a Baka el Sharkyia, due minuti
di macchina prima dell’Intifada. Ora ci
vuole un’ora e mezzo, più la fermata ai posti
di blocco intorno a Tulkarem. Tulkarem
è a circa quindici chilometri da Baka. E’ il
punto d’accesso più vicino. Ma partire non
significa arrivare. A volte il posto di blocco
è chiuso: ci sono passato anch’io e non c’era
nessuno. Tutto deserto e abbandonato,
cancelli chiusi, oggi non si passa. A volte si
passa in fretta, e a volte si perdono ore.
Attraversato il posto di blocco bisogna
entrare e uscire da Tulkarem e la cosa non
è semplice perché prima di arrivare a
Baka el Sharkiya ce n’è un altro di posti di
blocco, a Shueika. Ore per andare a trovare
un cugino, senza mai sapere se oggi si
passa o no. Mahmoud dice che è come prima
del 1967. Allora Baka el Sharkiya era in
Giordania. C’era un confine ed era chiuso.
Dopo il 1967 il confine è scomparso sul terreno,
rimanendo soltanto sulle mappe politicamente
corrette, cioè non quelle prodotte
nella regione da entrambi i contendenti.
Nemmeno ora c’è il confine, ma
adesso è di nuovo chiuso. E ascoltando
Mahmoud, il potenziale della barriera appare
chiaro e limpido. Israele oggi dà il 15
per cento dei permessi di lavoro nei Territori
rispetto a prima dell’inizio dell’Intifada:
troppi i terroristi che si sono infiltrati
come braccianti. Ma la povera gente è alla
fame. Mahmoud mi dice che porta cibo ai
parenti che non hanno soldi per comprarselo.
Pian piano la vita dalle due parti della
barriera ricomincia a essere diversa. I
contatti calano. E il confine, che 37 anni di
occupazione e dozzine di insediamenti
hanno fatto di tutto per cancellare, sta risorgendo
per dividere due popoli e forse
un giorno due Stati. E tutto questo lo sta facendo
il premier Ariel Sharon, che più di
ogni altro militare e politico in Israele aveva
fatto per annullare quel confine.
Nessuno al caffè spende una parola di
approvazione per Sharon o per la barriera.
Non amano nemmeno il leader laburista
Shimon Peres di cui non si fidano, e disprezzano
Ehud Barak, ex primo ministro,
che per loro ha tradito tutte le promesse
fatte. Hanno invece nostalgia di Amram
Mitzna, ex candidato premier, che sosteneva
il ritiro unilaterale e criticava Sharon
perché esitava a costruire la barriera. Questo
è un paese dove arabi ed ebrei hanno
la memoria lunga. L’identità di entrambi
affonda nella storia e nella preistoria. Le
loro recriminazioni si basano sulla storia,
che citano ad nauseam a sostegno delle rispettive
cause. Ma in politica, qui a Baka el
Gharbiya, mi sembra che la memoria sia
corta se a un anno e mezzo dalla sconfitta
di Mitzna, con Sharon che segue una linea
politica simile a quella da lui sostenuta, il
premier è odiato da tutti, mentre l’ex rivale
causa persino qualche lacrima di nostalgia.
Come biasimarli? Per loro, l’Intifada
prima e adesso la barriera sono state la
rovina economica. Tutti gli interpellati ripetono
di volere una soluzione equa al conflitto.
Gli arabi che non vogliono Arafat
Nessuno fa il barricadiero o parla per
slogan, non soltanto almeno. Al caffè sono
tutti lavoratori, concreti, con i piedi per
terra. Conoscono i temi del conflitto e hanno
idee molto nette anche su cosa occorra
fare per risolverlo. Per loro è impossibile
pensare che i rifugiati palestinesi tornino
in blocco in Israele. Per loro ci vogliono
due Stati. E quando ci saranno, loro rimarranno
con Israele, in Israele, con il passaporto
israeliano. Non vogliono nemmeno la
doppia nazionalità. Non si sognano neanche
lontanamente di sostenere aggiustamenti
di confine che li lascino, loro a Baka
o altri insediamenti arabi-israeliani come
Umm el Fahm o Taibeh o Jaljulya, sotto sovranità
palestinese. Il rais sarà anche il
leader indiscusso dei palestinesi, ma sotto
di lui nessuno vuole starci. I miei interlocutori
sono poco ottimisti. “Non c’è volontà
politica”, mi dice Muhammad. Gli chiedo
di chi è la colpa, di Arafat o di Sharon, e lui
accusa entrambi, anche se per Ka’adan,
che fa il fornaio a un catering dell’aeroporto
di Tel Aviv, è il più forte dei due contendenti
ad avere più responsabilità e a
dover smettere per primo. Tocca a Israele
ritirarsi. “E il terrorismo?”. “Finirà subito”,
mi dice Ka’adan. “E Hamas?”. “Hamas
vuole la pace”, mi dice serafico. Quelli di
Hamas sono pragmatici per lui e disposti
ad accettare i due Stati. Per i miei commensali
tutto dipende da Israele.
Oltre alla rabbia trovo anche un po’ di
realismo: “Arafat ha fatto un errore storico
nel 2000 a Camp David”, dice Muhammad.
Ka’adan crede che Barak bluffasse,
Muhammad dice che non importa. Arafat
poteva dire di sì, se fosse stato un bluff
avrebbe smascherato l’ex premier israeliano.
Ma se fosse stata un’offerta genuina,
nulla di quanto è poi accaduto sarebbe successo.
Nonostante questo, per Muhammad,
Arafat è l’unico leader arabo eletto democraticamente,
e se i palestinesi lo vogliono
come guida bisogna negoziare con lui.
Ka’adan non è certo sicuro che l’elezione
sia stata regolare, ma è d’accordo. Il rais rimane
il rais.
Domando loro se Israele debba chiedere
scusa ai palestinesi per il problema dei
rifugiati. Muhammad, nato a Haifa nel 1946,
dice che è un problema politico, non spetta
a lui rispondere. Ma non ha paura di dire
chiaramente che per lui Israele può stare
tranquillo. I rifugiati non devono tornare.
Meglio una soluzione pratica, con gli insediamenti
evacuati e utilizzati per assorbire
i rifugiati che volessero tornare. Tutti
i presenti concordano: due Stati per due
popoli. Altro che Stato binazionale. Non si
fanno illusioni, non si fanno prendere da
fantasie liberali. Per loro la soluzione è
semplice. Finire l’occupazione. Iniziare i
negoziati. Ritiro israeliano sul confine del
1967. Riconoscimento d’Israele da parte
del mondo arabo. “Israele non può ignorare
di trovarsi nel cuore del mondo arabo, ci
sono 250 milioni di arabi e un miliardo e
passa di musulmani nel mondo – mi dice
Muhammad – Il tempo non è a favore d’Israele”.
“Welcome to hell”
Perché allora sfugge la pace? “Manca la
volontà politica”, mi dice Muhammad. Sharon
e il suo partito, il Likud, da queste parti,
non riscuotono simpatia. Ka’adan ritiene
che se non ci fossero gli attentati palestinesi
ci penserebbe il Likud a mettere le
bombe. Una teoria del complotto in medio
oriente non manca mai, ma anche qui, in
quest’angolo d’Israele dove c’è rabbia e disillusione,
gli arabi alla fine si definiscono
israeliani e vogliono restare cittadini d’Israele.
Nessuno di loro è disposto a dire
una parola buona sulla barriera. Per loro è
rovina economica e umiliazione. Hanno
perso terre: il villaggio è stretto tra l’autostrada
6 e la barriera. Chiedo a Ka’adan se
l’Intifada allora sia servita a qualcosa. “A
sensibilizzare il mondo – mi dice – Ora il
mondo sa”. E prima non sapeva? Ci volevano
le bombe per sensibilizzare l’opinione
pubblica? “No, le bombe no”, interrompe
Muhammad imperiosamente. Un uomo
grande grande, figlio di un marinaio che all’inizio
della guerra del 1948 lasciò Haifa e
riportò la famiglia al villaggio dei padri, ha
due grandi occhi azzurri e un piglio schietto
e sincero. Mi sembra quasi di essere in
un cascinale sulle colline toscane, invece
sono a un chilometro dalla barriera israeliana
a un caffè arabo nel caldo di mezzogiorno:
“La violenza è stata un grandissimo
errore. Non ci doveva essere violenza nell’Intifada”,
dice Muhammad. No, non ci doveva
essere. Ma è forse troppo tardi per recriminare,
e né Mahmoud, né Muhammad,
né Ka’adan decidono i destini del mondo
che li circonda. Esprimono solidarietà ai
loro fratelli, ma ne disapprovano la strategia.
E intanto ne pagano le conseguenze. A
loro, che aspirano a due Stati e a un confine
aperto, a una vita normale con lavoro
per i figli e onore per i loro fratelli al di là
del muro, questo confine, che si erge a due
passi da casa, proprio non piace.
Fatico a pagare il conto, perché l’ospitalità
qui è sacra e preziosa almeno quanto
l’acqua e riparto. Lungo Wadi Ara, zona del
triangolo, la barriera è nascosta dalle colline.
Oltre i monti di Giudea, nella zona
centrale del paese, c’è il deserto, ma risalendo
verso nord il paesaggio si addolcisce
e a mano a mano che la strada si allontana
dalla costa le aspre e brulle colline lasciano
spazio a un terreno più fertile e rigoglioso,
che declina infine nella grande piana
dello Yezreel, all’altezza di Megiddo, la
città dell’età del bronzo, punto di passaggio
tra nord e sud e porta d’accesso alla vallata,
dominata a nord dal Monte Tabor, dove
secondo un’importante tradizione avvenne
la trasfigurazione di Gesù, e teatro, secondo
l’Apocalisse, della futura battaglia finale
dell’Armageddon (da Har Megiddo in
ebraico, “monte di Megiddo”) tra le forze
del Bene e le forze del Male.
Arrivo a Saleem, villaggio arabo israeliano
alle porte della spianata vicino a Megiddo,
a mezzogiorno. Il sole è cocente e
abbaglia con i suoi raggi riflessi dalle pietre
bianche delle ultime colline circostanti.
A nord si apre un paesaggio verde e dall’altra
parte della valle, dietro il Tabor,
s’intuiscono nella canicola i dorsi delle colline
della Galilea che pian piano risalgono
verso il confine con il Libano. La stretta
striscia di terra che separava il Mediterraneo
dalla linea verde è alle mie spalle, lo
spazio tra mare e confine ridà respiro a un
paese che da sempre teme di esser tagliato
in due da un’invasione proveniente da
est. Arrivo ai margini del villaggio che si
erge su una collina. Due blocchi di cemento
colorano un piazzale desolato dove parcheggio.
Su di essi un burlone di un’unità
di mezzi pesanti dell’esercito israeliano ha
scritto, in un pessimo inglese, “Welcome to
Hell”, benvenuti all’inferno. Oltre le colline
che si vedono a ovest si intravede Jenin.
Il posto di blocco che controlla l’accesso ai
territori è a poche centinaia di metri. E la
barriera scorre appena sotto il mio posto
d’osservazione. Nel 2002, quando l’esercito
lanciò l’operazione Muro Difensivo ed entrò
a Jenin per snidare il terrorismo che da
lì aveva mandato decine di assassini nel
cuore d’Israele, qui stavano appollaiate le
troupe delle televisioni straniere. Ora non
c’è nessuno. Sotto di me la barriera, con la
solita strada per le jeep, i sensori, il filo
spinato e la rete elettronica, il tratto di sabbia
per identificare le impronte. Sfreccia
una jeep. Un gregge bruca tranquillo accanto
alla barriera i pochi fili d’erba rimasti
a fine estate. Sui monti a sud si vedono
le ultime case di Umm el Fahm, città arabo-
israeliana, prospera e pigra, roccaforte
del movimento islamico. Da Jenin sono arrivati
molti attentatori. Hanno colpito ad
Afula, a Hadera, a Haifa, a Kfar Saba, a Netanya,
a Nahariya, seminando morte tra
ebrei e arabi. Ora non arriva più niente e
nessuno. In mezzo alle brulle colline che il
piazzale sovrasta, la barriera salta subito
all’occhio, ma appare di nuovo innocua,
mentre si snoda indisturbata lungo la linea
verde in un tratto disabitato. Pomeriggio.
Si ritorna verso sud. Passo accanto a Qalqilya,
dove c’è di nuovo il muro, non la barriera.
Un pugno di case della città sono rimaste
a ovest del suo percorso. Invece che
abbandonarle, gli abitanti sono rimasti, ottenendo
carte d’identità israeliane e permesso
di residenza. Palestina sì, ma è più
importante mangiare e il nazionalismo non
si spalma sul pane. Chi ha la carta d’identità
israeliana e vive al di qua dal muro lavora
e mangia. Chi sta al di là, invece, di
questo non è sicuro.
Il muro aggira la città e poi si trasforma,
sotto lo sguardo vigile di una torretta, in rete.
Vicino a Qalqilya passa la strada che da
Netanya va sino a Nablus, nei territori, sulla
quale si trovano alcuni insediamenti
israeliani. Lì la barriera ha creato una piccola
enclave che si allunga oltre la linea
verde, incorporando alcuni insediamenti.
Ne visito uno, Alfei Menashe, circa 6.000
abitanti, villette a schiera, un centro sportivo
e un’aria borghese e tranquilla su una
collina a 400 metri circa d’altezza sul mare,
con una vista meravigliosa e una magnifica
brezza anche sotto il sole a picco sulle due.
Qui nessuno è estremista: ci sono religiosi
e laici, gente di sinistra e di destra,
nessuno in cerca di messianesimo militante,
molti convinti di aver trovato l’eldorado
borghese della casa a basso costo, dell’alta
qualità della vita e dell’aria buona, a
mezz’ora di macchina da Tel Aviv. Gli abitanti
lascerebbero le loro case, se ben ricompensati,
ma se la barriera è un confine,
dubito che dovranno andare via. Dalla cima
del colle su cui si inerpicano le case di
Alfei Menashe, vedo la barriera a destra e
a sinistra. A sud dell’insediamento c’è un
wadi profondo che lo separa da un villaggio
arabo. Non più di cento metri in linea d’aria,
ma al centro, a mezza costa sulle pendici
della collina, passa la barriera.
A nord, la barriera è più distante, ma
corre poco lontano dalla strada cui è parallela
fino a includere Alfei Menashe e
Karnei Shomron, altro insediamento, in
un’enclave che penetra come un dito dentro
la Cisgiordania circondando in parte
Qalqilya. E al ritorno, meno di un chilometro
dalla linea verde, mi fermo a guardare
l’ultima innovazione del sistema difensivo.
La barriera qui è a pochi metri da ambo
i lati della carreggiata, sotto alla quale
scorre un’altra strada perpendicolare, anch’essa
delimitata da un reticolato difensivo,
e una via per le jeep.
Per risparmiare ai palestinesi
posti di blocco e lunghi percorsi,
il governo ha fatto aprire una
galleria sotto la strada
Per collegare Qalqilya
ad altri villaggi e risparmiare ai palestinesi
posti di blocco e lunghi percorsi che
aggirano l’enclave, il governo israeliano ha
fatto aprire una galleria sotto la strada.
Mentre fotografo passa una macchina.
Niente più posti di blocco, niente più ore di
attesa. Oltre confine, questo l’obiettivo della
barriera, alla fine l’intrusiva presenza
israeliana dovrebbe scomparire o almeno
ridursi al minimo. Il paesaggio ne esce un
po’ deturpato. Ma anche qui, non lontano
da Netanya, dove la morte è arrivata tante
volte, all’improvviso, dopo il settembre
2000, una galleria e un reticolato sembrano
una cosa naturale.
E’ tardi e risalgo a Gerusalemme. Lungo
la strada 444 che dai pressi dell’aeroporto
di Tel Aviv lambisce Modi’in – una città sorta
dal nulla nel 1994 e che ora ha più di 200
mila abitanti – si perde di vista la barriera.
La ritrovo arrivando a Gerusalemme e di
nuovo la riperdo. Qui la barriera, che di
nuovo attraversa villaggi e caseggiati, è muro
alternato a rete, ed è soltanto in parte
costruita. In pochi minuti arrivo al Monte
degli Ulivi. Dal cimitero ebraico, che da secoli
si estende sull’altura dove i morti guardano
il Monte del Tempio aspettando con
pazienza l’arrivo del Messia, intravedo in
lontananza il muro che a tratti già taglia a
metà i villaggi di Abu Dis e Betania. Comincia
poco sotto la chiesa francescana di
Beit Fajje, da dove ogni anno parte la processione
della Domenica delle Palme.
Una volta, da Abu Dis passava la strada
che collega Gerusalemme a Gerico. Ora
esiste una superstrada che dalla Porta di
Damasco passa a sud di Bet Hanina e, virando
bruscamente dietro il Monte Scopus,
scende rapida al Mar Morto. Una volta si
passava soltanto da Abu Dis. Ora la strada
è interrotta dal muro. A poche decine di
metri la stazione della guardia di frontiera,
le cui jeep escono ogni quindici minuti
per pattugliare il tracciato. Dall’altra parte
si vede il minareto della moschea. Sullo
spiazzo ora deserto si fanno le manifestazioni
contro il muro; i graffiti e le scritte di
cui è ricoperto si prestano a una photo-op:
“Paid by Bush”, pagato da Bush; “From
Warsaw Ghetto to Abu Dis Ghetto”, dal
Ghetto di Varsavia al Ghetto di Abu Dis, si
legge sulla barriera. Poco più su, in uno
spiazzo più piccolo e discreto, nascosto da
viuzze e da qualche complicità, c’è un posteggio
per i taxi accanto a una breccia
aperta nel muro, a dieci metri dalla strada.
Attraverso la breccia c’è un andirivieni di
palestinesi. Un vigile controlla il transito
dal passaggio, mentre un anziano signore,
seduto in un angolo su una sdraio, vende fichi
ai passanti.
Il giro è finito. Il muro, la barriera difensiva
o antiterrorismo che dir si voglia, c’è.
C’è nonostante la Corte internazionale, le
Nazioni Unite e tutti i no global che arrivano
a manifestare da varie parti del mondo
la loro ingenuità sul piazzale di Abu Dis,
che era un tempo una strada, non lontano
dal signore che vende fichi ai passanti. Ma
soprattutto c’è in barba ai terroristi che per
quattro anni hanno cercato di piegare
Israele senza riuscirci. Quando il 31 agosto
scorso due attentatori suicidi si sono fatti
esplodere su altrettanti autobus a Beersheva,
nel sud del paese, la reazione più
diffusa qui è stata: nel sud manca la barriera,
occorre costruirla. Brutta, intrusiva,
invasiva, deturpante; chiude (o crea) il confine,
ferma il flusso di lavoratori, danneggia
l’economia dei villaggi che avevano guadagnato
dall’occupazione e dalla sparizione
del confine; ha piegato le già stremate
popolazioni dei Territori e ha sottratto terre
agricole ai palestinesi. Ma ha fermato il
flusso del terrore. Questa volta gli israeliani,
davanti all’ennesimo attentato, non sono
sprofondati nella disperazione e nel
pessimismo. Ora hanno una risposta, una
soluzione efficace per far fronte alla micidiale
arma utilizzata dal nemico. La barriera
funziona: ha sconfitto il terrorismo.
Ma la barriera è molto di più. Ariel Sharon,
i suoi portavoce, i suoi sostenitori insistono
che si tratta soltanto di una misura di
sicurezza, provvisoria e removibile nel caso
arrivi la pace e finisca il terrorismo. Ma
Sharon si sta ritirando da Gaza, unilateralmente,
perché dice di non credere che al
momento ci sia la possibilità di raggiungere
un accordo di pace, e perché ritiene che
il terrorismo continuerà. E in questo si contraddice:
senza pace a breve termine e con
il terrorismo che continua, la barriera resterà
ancora per molto. E con il tempo, anche
i fatti transitori e provvisori acquistano
permanenza, perché creano nuove realtà.
Lo Stato che Sharon ha in mente
La barriera sta creando un confine.
Chiuso, come prima del 1967, ma un confine.
Troppi sono i 37 anni in cui le opposte
illusioni di chi credeva alla Grande Israele
e chi lottava per la Grande Palestina si sono
alimentate della mancanza di un confine
e della sempre più difficile opera di
tracciarne uno. Ora il confine sta sorgendo,
per buona pace di chi s’oppone. Se volete
sapere quale Stato palestinese Sharon abbia
in mente, guardate dove passerà la barriera.
Israele da ormai due anni la sta erigendo
nel cuore di questi luoghi per porre
un ostacolo invalicabile tra se stesso e i palestinesi:
a detta delle fonti ufficiali soltanto
quei palestinesi animati da intenzioni
assassine, che nei quattro anni di Intifada,
iniziata il 29 settembre 2000, hanno massacrato
in centinaia di attentati suicidi più di
mille israeliani. Ma il colpo d’occhio dà
un’altra impressione, che un giorno di viaggio
lungo i meandri della barriera conferma.
Questo è un confine, è qui per restare,
è qui per dividere, è qui per demarcare.
La sera esco a cena. Gerusalemme, così
deserta, vuota e desolata tre anni fa, quando
ogni autobus poteva essere una cassa da
morto, ogni bar una tomba, ogni ristorante
un cimitero, ora brulica di giovani, di turisti,
di gente con una tremenda voglia di vivere
nonostante la guerra. Ho visto la barriera
e non mi è piaciuta. Ma poi guardo la
vita che mi scorre attorno, finalmente senza
paura di morire a ogni angolo della strada.
E in tutto questo, la bruttura che sta sorgendo
nel cuore di questa terra appare di
nuovo un insignificante dettaglio.
Emanuele Ottolenghi
Ho visto il muro e non mi è piaciuto. Ho visto Gerusalemme viva e senza paura, e ho capito
Di Emanuele Ottolenghi
Il Foglio, 17 settembre 2004
Inserto 1 e 2
Gerusalemme. La strada che collega Gerusalemme
al mare scende rapidamente
tra aspre, brulle e alte colline in mezzo a
uno stretto wadi (valle) fino a una gola dove
improvvisamente irrompe la pianura. E’
poco dopo questa gola, che si chiama proprio
Porta della Valle – Sha’ar Hagai in
ebraico, Bab el Wad in arabo – che lascio la
strada per immettermi sull’autostrada 6, la
nuova e imponente arteria di traffico che,
una volta completata, attraverserà Israele
da nord a sud. L’autostrada 6 corre lungo la
pianura, a ovest il mare e a est le montagne
di Giudea, oltre alle quali la terra sprofonda
nella deserta desolazione della depressione
del Mar Morto. La geografia qui è impietosa:
fertile, calda e umida la pianura,
dalla quale, pochi chilometri a est, la terra
sale improvvisamente, con colline sempre
più alte e pietrose, separate da profonde e
strette gole. Finisce improvvisamente la vegetazione
e iniziano la pietra e la polvere,
che brillano bianche nel cocente sole estivo.
E’ lì, lungo il primo tratto d’autostrada
costruito che appare la barriera. L’autostrada
corre lungo il vecchio confine, sul lato
israeliano, lambendolo a volte. Sono nel
centro d’Israele, molto vicino al mare. Tra
la linea verde e la costa ci sono non più di
quindici chilometri. Qui vicino c’è Netanya,
a mezz’ora di cammino veloce, forse meno,
dalla linea verde, dove un terrorista palestinese
si fece esplodere alla vigilia della
Pasqua ebraica a fine marzo 2002, massacrando
decine di ebrei radunati nella sala
da pranzo del Park Hotel per la tradizionale
cena rituale. E’ poco distante anche Tel
Aviv, anch’essa colpita più volte da attentati.
Poco più a nord Afula e Hadera, dove un
terrorista fece irruzione a una festa di Bar-
Mitzva, l’equivalente ebraico della Cresima,
sparando sui festanti e uccidendone
cinque. Da quando c’è la barriera questa
zona è tranquilla, da mesi non ci sono più
attentati.
Mi fermo a guardare. Sono passate da poco
le otto del mattino. Il traffico scorre, alleggerendo
gli ingorghi attorno alla tangenziale
di Tel Aviv. Lungo l’autostrada la
barriera difensiva è un muro di cemento,
alto e grigio, fiancheggiato da una stretta
strada per le pattuglie che corre lungo l’autostrada.
Del muro, però, ormai si vede poco.
Da dicembre scorso, è stato eretto un
terrapieno dove campeggiano aiuole e fioriere,
e della barriera si vede soltanto la
punta, che emerge appena. Niente fiori dal
lato palestinese, soltanto otto metri in verticale
che i terroristi non riescono a saltare,
e che separa chi con il terrore non ha
nulla a che fare dai lavori giornalieri che
in tempi di pace decine di migliaia di palestinesi
avevano in Israele e che sostenevano
un’economia nei Territori oggi invece
esausta. Qalqilya, città di confine come
Tulkarem, è quasi interamente circondata
dal muro. Prima che gli israeliani lo erigessero,
i cecchini sparavano sulle macchine
in transito. La barriera di rete, che incontro
più avanti, non sarebbe bastata a
fermarne i proiettili. Ora il solo pericolo è
il traffico un po’ aggressivo e un po’ sbadato
di questo paese.
Per un po’ l’autostrada scorre lungo la linea
verde, il vecchio confine provvisorio
che tra il 1949 e il 1967 divise il paese in
due e creò una barriera impenetrabile in
luoghi dove di confini politici non ve n’erano
mai stati, ma soltanto ostacoli geografici.
Ma il muro dura poco, una manciata di
chilometri, fino a che l’autostrada vira verso
nord-ovest allontanandosi dal tracciato
della barriera. Dopo ricomincia la rete
elettronica. Lascio l’autostrada per la prima
tappa della giornata, nel piccolo triangolo,
una zona densamente popolata da
arabi israeliani, quegli arabi che alla fine
della guerra del 1948 si trovarono a far parte
dello Stato d’Israele.
Attraverso rapidamente Baka el Gharbiya
e passo Jatt, che si trova insieme a
Baka lungo la linea verde e ora anche lungo
la barriera. Qui vicino c’è Beisan, oltre il
confine ci sono Baka el Sharkiya, Ziitta e
Dera. Qui, linea verde o no, sono tutti parenti,
tutti membri di clan che il confine ha
separato per i diciannove anni d’occupazione
giordana. La guerra del 1948, con la
sua linea del cessate il fuoco stabilita ca
casualmente
dagli eventi di quel conflitto, li
ha divisi e ne ha determinato diversi destini.
Dal 1967, il confine aperto li ha riuniti.
Ora la barriera li divide di nuovo.
Tutt’attorno ai villaggi della zona ci sono
cooperative agricole e centri residenziali
abitati da ebrei. Nemmeno qui, dove da
quasi sessant’anni i rapporti sono buoni, le
due popolazioni si mischiano. Eppure prima
dell’Intifada gli arabi lavoravano nelle
cooperative e gli ebrei venivano nei villaggi
a comprare prodotti a buon mercato. Gli
arabi fanno i muratori, gli artigiani, gli agricoltori.
Gli ebrei fanno anche loro gli agricoltori
o gestiscono piccole fabbriche o industrie.
Chi ha la terra non lavora per gli
ebrei, ma vende loro i prodotti agricoli. Chi
non ha terra fa il bracciante. Ma ora di lavoro
ce n’è meno, e la fiducia è diminuita. I
rapporti personali sono ancora buoni, ma
di affari se ne fanno meno. E ci perdono
tutti. Le cooperative qui intorno sono laiche
e di sinistra. Tra loro c’è il Kibbutz Metzer.
Erano tutti contrarissimi alla barriera,
nella quale vedevano la sconfitta del principio
di convivenza su cui questa piccola
regione vive e prospera da sempre. Poi,
una sera, nel 2002, un commando palestinese
ha attraversato i campi e le serre, i villaggi
e le strade polverose. Cinque, forse
dieci minuti a piedi dai Territori fino a
Metzer, cooperativa di sinistra che crede e
pratica la convivenza. Il commando penetra
in una dimora scelta a caso, e in pochi
minuti stermina l’intera famiglia, madre e
due figli, tutti bambini neanche adolescenti.
I bimbi li ammazza a letto, nei loro pigiami,
abbracciati ai loro orsacchiotti. Ora
a Metzer non ci si arriva più, né in dieci né
in cento né in mille minuti. Il facile percorso
tra Territori e kibbutz è interrotto
dalla barriera. Il confine, aperto dal 1967 e
annullato da 37 anni d’occupazione e insediamenti,
ora improvvisamente è risorto.
L’economia è peggiorata per tutti
Verde a perdita d’occhio, serre, campi
coltivati e villaggi in lontananza. Mi fermo
di nuovo a guardare la barriera che vi scorre
in mezzo: riappare la rete, con l’imponente
sistema di sicurezza che la attornia:
il filo spinato, un perimetro largo tre metri
coperto di sabbia per identificare rapidamente
impronte di passaggio, una strada
asfaltata per le jeep militari, ancora tre
metri di sabbia e la barriera di rete elettronica.
Metzer era contrario. Ora sono in
molti a sostenere la barriera.
Arrivo a Baka el Gharbiya, cioè la Baka
israeliana. Qui negli anni buoni era un
continuo viavai. Migliaia di lavoratori palestinesi
transitavano per il villaggio la
mattina e vi ripassavano la sera, dopo una
giornata di lavoro in Israele. Nel villaggio
compravano viveri e si fermavano ai caffè
in attesa di essere raccolti dai loro datori
di lavoro. Ora il flusso si è interrotto. Di qui
passavano gli israeliani che andavano a
mangiare e ad acquistare nei Territori.
Non vengono più. L’economia di tutto il
paese ha sofferto negli ultimi quattro anni,
ma la barriera ha colpito gli arabi di Baka
el Gharbiya più dei loro cugini ebrei. Le
bombe qui non esplodevano e quindi la
rabbia per la barriera è grande.
Mi siedo a un caffè e comincio a chiacchierare
con i presenti. Sono le dieci passate,
il sole è alto e fa caldo, ma al caffè un
pubblico di soli uomini di tutte le età indugia
pigramente su una tazza di tè alla
menta. Mahmoud, sessant’anni e sei figli,
gioca con il suo rosario e mi invita al suo
tavolo. Mi racconta dei suoi viaggi a trovare
i parenti a Baka el Sharkyia, due minuti
di macchina prima dell’Intifada. Ora ci
vuole un’ora e mezzo, più la fermata ai posti
di blocco intorno a Tulkarem. Tulkarem
è a circa quindici chilometri da Baka. E’ il
punto d’accesso più vicino. Ma partire non
significa arrivare. A volte il posto di blocco
è chiuso: ci sono passato anch’io e non c’era
nessuno. Tutto deserto e abbandonato,
cancelli chiusi, oggi non si passa. A volte si
passa in fretta, e a volte si perdono ore.
Attraversato il posto di blocco bisogna
entrare e uscire da Tulkarem e la cosa non
è semplice perché prima di arrivare a
Baka el Sharkiya ce n’è un altro di posti di
blocco, a Shueika. Ore per andare a trovare
un cugino, senza mai sapere se oggi si
passa o no. Mahmoud dice che è come prima
del 1967. Allora Baka el Sharkiya era in
Giordania. C’era un confine ed era chiuso.
Dopo il 1967 il confine è scomparso sul terreno,
rimanendo soltanto sulle mappe politicamente
corrette, cioè non quelle prodotte
nella regione da entrambi i contendenti.
Nemmeno ora c’è il confine, ma
adesso è di nuovo chiuso. E ascoltando
Mahmoud, il potenziale della barriera appare
chiaro e limpido. Israele oggi dà il 15
per cento dei permessi di lavoro nei Territori
rispetto a prima dell’inizio dell’Intifada:
troppi i terroristi che si sono infiltrati
come braccianti. Ma la povera gente è alla
fame. Mahmoud mi dice che porta cibo ai
parenti che non hanno soldi per comprarselo.
Pian piano la vita dalle due parti della
barriera ricomincia a essere diversa. I
contatti calano. E il confine, che 37 anni di
occupazione e dozzine di insediamenti
hanno fatto di tutto per cancellare, sta risorgendo
per dividere due popoli e forse
un giorno due Stati. E tutto questo lo sta facendo
il premier Ariel Sharon, che più di
ogni altro militare e politico in Israele aveva
fatto per annullare quel confine.
Nessuno al caffè spende una parola di
approvazione per Sharon o per la barriera.
Non amano nemmeno il leader laburista
Shimon Peres di cui non si fidano, e disprezzano
Ehud Barak, ex primo ministro,
che per loro ha tradito tutte le promesse
fatte. Hanno invece nostalgia di Amram
Mitzna, ex candidato premier, che sosteneva
il ritiro unilaterale e criticava Sharon
perché esitava a costruire la barriera. Questo
è un paese dove arabi ed ebrei hanno
la memoria lunga. L’identità di entrambi
affonda nella storia e nella preistoria. Le
loro recriminazioni si basano sulla storia,
che citano ad nauseam a sostegno delle rispettive
cause. Ma in politica, qui a Baka el
Gharbiya, mi sembra che la memoria sia
corta se a un anno e mezzo dalla sconfitta
di Mitzna, con Sharon che segue una linea
politica simile a quella da lui sostenuta, il
premier è odiato da tutti, mentre l’ex rivale
causa persino qualche lacrima di nostalgia.
Come biasimarli? Per loro, l’Intifada
prima e adesso la barriera sono state la
rovina economica. Tutti gli interpellati ripetono
di volere una soluzione equa al conflitto.
Gli arabi che non vogliono Arafat
Nessuno fa il barricadiero o parla per
slogan, non soltanto almeno. Al caffè sono
tutti lavoratori, concreti, con i piedi per
terra. Conoscono i temi del conflitto e hanno
idee molto nette anche su cosa occorra
fare per risolverlo. Per loro è impossibile
pensare che i rifugiati palestinesi tornino
in blocco in Israele. Per loro ci vogliono
due Stati. E quando ci saranno, loro rimarranno
con Israele, in Israele, con il passaporto
israeliano. Non vogliono nemmeno la
doppia nazionalità. Non si sognano neanche
lontanamente di sostenere aggiustamenti
di confine che li lascino, loro a Baka
o altri insediamenti arabi-israeliani come
Umm el Fahm o Taibeh o Jaljulya, sotto sovranità
palestinese. Il rais sarà anche il
leader indiscusso dei palestinesi, ma sotto
di lui nessuno vuole starci. I miei interlocutori
sono poco ottimisti. “Non c’è volontà
politica”, mi dice Muhammad. Gli chiedo
di chi è la colpa, di Arafat o di Sharon, e lui
accusa entrambi, anche se per Ka’adan,
che fa il fornaio a un catering dell’aeroporto
di Tel Aviv, è il più forte dei due contendenti
ad avere più responsabilità e a
dover smettere per primo. Tocca a Israele
ritirarsi. “E il terrorismo?”. “Finirà subito”,
mi dice Ka’adan. “E Hamas?”. “Hamas
vuole la pace”, mi dice serafico. Quelli di
Hamas sono pragmatici per lui e disposti
ad accettare i due Stati. Per i miei commensali
tutto dipende da Israele.
Oltre alla rabbia trovo anche un po’ di
realismo: “Arafat ha fatto un errore storico
nel 2000 a Camp David”, dice Muhammad.
Ka’adan crede che Barak bluffasse,
Muhammad dice che non importa. Arafat
poteva dire di sì, se fosse stato un bluff
avrebbe smascherato l’ex premier israeliano.
Ma se fosse stata un’offerta genuina,
nulla di quanto è poi accaduto sarebbe successo.
Nonostante questo, per Muhammad,
Arafat è l’unico leader arabo eletto democraticamente,
e se i palestinesi lo vogliono
come guida bisogna negoziare con lui.
Ka’adan non è certo sicuro che l’elezione
sia stata regolare, ma è d’accordo. Il rais rimane
il rais.
Domando loro se Israele debba chiedere
scusa ai palestinesi per il problema dei
rifugiati. Muhammad, nato a Haifa nel 1946,
dice che è un problema politico, non spetta
a lui rispondere. Ma non ha paura di dire
chiaramente che per lui Israele può stare
tranquillo. I rifugiati non devono tornare.
Meglio una soluzione pratica, con gli insediamenti
evacuati e utilizzati per assorbire
i rifugiati che volessero tornare. Tutti
i presenti concordano: due Stati per due
popoli. Altro che Stato binazionale. Non si
fanno illusioni, non si fanno prendere da
fantasie liberali. Per loro la soluzione è
semplice. Finire l’occupazione. Iniziare i
negoziati. Ritiro israeliano sul confine del
1967. Riconoscimento d’Israele da parte
del mondo arabo. “Israele non può ignorare
di trovarsi nel cuore del mondo arabo, ci
sono 250 milioni di arabi e un miliardo e
passa di musulmani nel mondo – mi dice
Muhammad – Il tempo non è a favore d’Israele”.
“Welcome to hell”
Perché allora sfugge la pace? “Manca la
volontà politica”, mi dice Muhammad. Sharon
e il suo partito, il Likud, da queste parti,
non riscuotono simpatia. Ka’adan ritiene
che se non ci fossero gli attentati palestinesi
ci penserebbe il Likud a mettere le
bombe. Una teoria del complotto in medio
oriente non manca mai, ma anche qui, in
quest’angolo d’Israele dove c’è rabbia e disillusione,
gli arabi alla fine si definiscono
israeliani e vogliono restare cittadini d’Israele.
Nessuno di loro è disposto a dire
una parola buona sulla barriera. Per loro è
rovina economica e umiliazione. Hanno
perso terre: il villaggio è stretto tra l’autostrada
6 e la barriera. Chiedo a Ka’adan se
l’Intifada allora sia servita a qualcosa. “A
sensibilizzare il mondo – mi dice – Ora il
mondo sa”. E prima non sapeva? Ci volevano
le bombe per sensibilizzare l’opinione
pubblica? “No, le bombe no”, interrompe
Muhammad imperiosamente. Un uomo
grande grande, figlio di un marinaio che all’inizio
della guerra del 1948 lasciò Haifa e
riportò la famiglia al villaggio dei padri, ha
due grandi occhi azzurri e un piglio schietto
e sincero. Mi sembra quasi di essere in
un cascinale sulle colline toscane, invece
sono a un chilometro dalla barriera israeliana
a un caffè arabo nel caldo di mezzogiorno:
“La violenza è stata un grandissimo
errore. Non ci doveva essere violenza nell’Intifada”,
dice Muhammad. No, non ci doveva
essere. Ma è forse troppo tardi per recriminare,
e né Mahmoud, né Muhammad,
né Ka’adan decidono i destini del mondo
che li circonda. Esprimono solidarietà ai
loro fratelli, ma ne disapprovano la strategia.
E intanto ne pagano le conseguenze. A
loro, che aspirano a due Stati e a un confine
aperto, a una vita normale con lavoro
per i figli e onore per i loro fratelli al di là
del muro, questo confine, che si erge a due
passi da casa, proprio non piace.
Fatico a pagare il conto, perché l’ospitalità
qui è sacra e preziosa almeno quanto
l’acqua e riparto. Lungo Wadi Ara, zona del
triangolo, la barriera è nascosta dalle colline.
Oltre i monti di Giudea, nella zona
centrale del paese, c’è il deserto, ma risalendo
verso nord il paesaggio si addolcisce
e a mano a mano che la strada si allontana
dalla costa le aspre e brulle colline lasciano
spazio a un terreno più fertile e rigoglioso,
che declina infine nella grande piana
dello Yezreel, all’altezza di Megiddo, la
città dell’età del bronzo, punto di passaggio
tra nord e sud e porta d’accesso alla vallata,
dominata a nord dal Monte Tabor, dove
secondo un’importante tradizione avvenne
la trasfigurazione di Gesù, e teatro, secondo
l’Apocalisse, della futura battaglia finale
dell’Armageddon (da Har Megiddo in
ebraico, “monte di Megiddo”) tra le forze
del Bene e le forze del Male.
Arrivo a Saleem, villaggio arabo israeliano
alle porte della spianata vicino a Megiddo,
a mezzogiorno. Il sole è cocente e
abbaglia con i suoi raggi riflessi dalle pietre
bianche delle ultime colline circostanti.
A nord si apre un paesaggio verde e dall’altra
parte della valle, dietro il Tabor,
s’intuiscono nella canicola i dorsi delle colline
della Galilea che pian piano risalgono
verso il confine con il Libano. La stretta
striscia di terra che separava il Mediterraneo
dalla linea verde è alle mie spalle, lo
spazio tra mare e confine ridà respiro a un
paese che da sempre teme di esser tagliato
in due da un’invasione proveniente da
est. Arrivo ai margini del villaggio che si
erge su una collina. Due blocchi di cemento
colorano un piazzale desolato dove parcheggio.
Su di essi un burlone di un’unità
di mezzi pesanti dell’esercito israeliano ha
scritto, in un pessimo inglese, “Welcome to
Hell”, benvenuti all’inferno. Oltre le colline
che si vedono a ovest si intravede Jenin.
Il posto di blocco che controlla l’accesso ai
territori è a poche centinaia di metri. E la
barriera scorre appena sotto il mio posto
d’osservazione. Nel 2002, quando l’esercito
lanciò l’operazione Muro Difensivo ed entrò
a Jenin per snidare il terrorismo che da
lì aveva mandato decine di assassini nel
cuore d’Israele, qui stavano appollaiate le
troupe delle televisioni straniere. Ora non
c’è nessuno. Sotto di me la barriera, con la
solita strada per le jeep, i sensori, il filo
spinato e la rete elettronica, il tratto di sabbia
per identificare le impronte. Sfreccia
una jeep. Un gregge bruca tranquillo accanto
alla barriera i pochi fili d’erba rimasti
a fine estate. Sui monti a sud si vedono
le ultime case di Umm el Fahm, città arabo-
israeliana, prospera e pigra, roccaforte
del movimento islamico. Da Jenin sono arrivati
molti attentatori. Hanno colpito ad
Afula, a Hadera, a Haifa, a Kfar Saba, a Netanya,
a Nahariya, seminando morte tra
ebrei e arabi. Ora non arriva più niente e
nessuno. In mezzo alle brulle colline che il
piazzale sovrasta, la barriera salta subito
all’occhio, ma appare di nuovo innocua,
mentre si snoda indisturbata lungo la linea
verde in un tratto disabitato. Pomeriggio.
Si ritorna verso sud. Passo accanto a Qalqilya,
dove c’è di nuovo il muro, non la barriera.
Un pugno di case della città sono rimaste
a ovest del suo percorso. Invece che
abbandonarle, gli abitanti sono rimasti, ottenendo
carte d’identità israeliane e permesso
di residenza. Palestina sì, ma è più
importante mangiare e il nazionalismo non
si spalma sul pane. Chi ha la carta d’identità
israeliana e vive al di qua dal muro lavora
e mangia. Chi sta al di là, invece, di
questo non è sicuro.
Il muro aggira la città e poi si trasforma,
sotto lo sguardo vigile di una torretta, in rete.
Vicino a Qalqilya passa la strada che da
Netanya va sino a Nablus, nei territori, sulla
quale si trovano alcuni insediamenti
israeliani. Lì la barriera ha creato una piccola
enclave che si allunga oltre la linea
verde, incorporando alcuni insediamenti.
Ne visito uno, Alfei Menashe, circa 6.000
abitanti, villette a schiera, un centro sportivo
e un’aria borghese e tranquilla su una
collina a 400 metri circa d’altezza sul mare,
con una vista meravigliosa e una magnifica
brezza anche sotto il sole a picco sulle due.
Qui nessuno è estremista: ci sono religiosi
e laici, gente di sinistra e di destra,
nessuno in cerca di messianesimo militante,
molti convinti di aver trovato l’eldorado
borghese della casa a basso costo, dell’alta
qualità della vita e dell’aria buona, a
mezz’ora di macchina da Tel Aviv. Gli abitanti
lascerebbero le loro case, se ben ricompensati,
ma se la barriera è un confine,
dubito che dovranno andare via. Dalla cima
del colle su cui si inerpicano le case di
Alfei Menashe, vedo la barriera a destra e
a sinistra. A sud dell’insediamento c’è un
wadi profondo che lo separa da un villaggio
arabo. Non più di cento metri in linea d’aria,
ma al centro, a mezza costa sulle pendici
della collina, passa la barriera.
A nord, la barriera è più distante, ma
corre poco lontano dalla strada cui è parallela
fino a includere Alfei Menashe e
Karnei Shomron, altro insediamento, in
un’enclave che penetra come un dito dentro
la Cisgiordania circondando in parte
Qalqilya. E al ritorno, meno di un chilometro
dalla linea verde, mi fermo a guardare
l’ultima innovazione del sistema difensivo.
La barriera qui è a pochi metri da ambo
i lati della carreggiata, sotto alla quale
scorre un’altra strada perpendicolare, anch’essa
delimitata da un reticolato difensivo,
e una via per le jeep.
Per risparmiare ai palestinesi
posti di blocco e lunghi percorsi,
il governo ha fatto aprire una
galleria sotto la strada
Per collegare Qalqilya
ad altri villaggi e risparmiare ai palestinesi
posti di blocco e lunghi percorsi che
aggirano l’enclave, il governo israeliano ha
fatto aprire una galleria sotto la strada.
Mentre fotografo passa una macchina.
Niente più posti di blocco, niente più ore di
attesa. Oltre confine, questo l’obiettivo della
barriera, alla fine l’intrusiva presenza
israeliana dovrebbe scomparire o almeno
ridursi al minimo. Il paesaggio ne esce un
po’ deturpato. Ma anche qui, non lontano
da Netanya, dove la morte è arrivata tante
volte, all’improvviso, dopo il settembre
2000, una galleria e un reticolato sembrano
una cosa naturale.
E’ tardi e risalgo a Gerusalemme. Lungo
la strada 444 che dai pressi dell’aeroporto
di Tel Aviv lambisce Modi’in – una città sorta
dal nulla nel 1994 e che ora ha più di 200
mila abitanti – si perde di vista la barriera.
La ritrovo arrivando a Gerusalemme e di
nuovo la riperdo. Qui la barriera, che di
nuovo attraversa villaggi e caseggiati, è muro
alternato a rete, ed è soltanto in parte
costruita. In pochi minuti arrivo al Monte
degli Ulivi. Dal cimitero ebraico, che da secoli
si estende sull’altura dove i morti guardano
il Monte del Tempio aspettando con
pazienza l’arrivo del Messia, intravedo in
lontananza il muro che a tratti già taglia a
metà i villaggi di Abu Dis e Betania. Comincia
poco sotto la chiesa francescana di
Beit Fajje, da dove ogni anno parte la processione
della Domenica delle Palme.
Una volta, da Abu Dis passava la strada
che collega Gerusalemme a Gerico. Ora
esiste una superstrada che dalla Porta di
Damasco passa a sud di Bet Hanina e, virando
bruscamente dietro il Monte Scopus,
scende rapida al Mar Morto. Una volta si
passava soltanto da Abu Dis. Ora la strada
è interrotta dal muro. A poche decine di
metri la stazione della guardia di frontiera,
le cui jeep escono ogni quindici minuti
per pattugliare il tracciato. Dall’altra parte
si vede il minareto della moschea. Sullo
spiazzo ora deserto si fanno le manifestazioni
contro il muro; i graffiti e le scritte di
cui è ricoperto si prestano a una photo-op:
“Paid by Bush”, pagato da Bush; “From
Warsaw Ghetto to Abu Dis Ghetto”, dal
Ghetto di Varsavia al Ghetto di Abu Dis, si
legge sulla barriera. Poco più su, in uno
spiazzo più piccolo e discreto, nascosto da
viuzze e da qualche complicità, c’è un posteggio
per i taxi accanto a una breccia
aperta nel muro, a dieci metri dalla strada.
Attraverso la breccia c’è un andirivieni di
palestinesi. Un vigile controlla il transito
dal passaggio, mentre un anziano signore,
seduto in un angolo su una sdraio, vende fichi
ai passanti.
Il giro è finito. Il muro, la barriera difensiva
o antiterrorismo che dir si voglia, c’è.
C’è nonostante la Corte internazionale, le
Nazioni Unite e tutti i no global che arrivano
a manifestare da varie parti del mondo
la loro ingenuità sul piazzale di Abu Dis,
che era un tempo una strada, non lontano
dal signore che vende fichi ai passanti. Ma
soprattutto c’è in barba ai terroristi che per
quattro anni hanno cercato di piegare
Israele senza riuscirci. Quando il 31 agosto
scorso due attentatori suicidi si sono fatti
esplodere su altrettanti autobus a Beersheva,
nel sud del paese, la reazione più
diffusa qui è stata: nel sud manca la barriera,
occorre costruirla. Brutta, intrusiva,
invasiva, deturpante; chiude (o crea) il confine,
ferma il flusso di lavoratori, danneggia
l’economia dei villaggi che avevano guadagnato
dall’occupazione e dalla sparizione
del confine; ha piegato le già stremate
popolazioni dei Territori e ha sottratto terre
agricole ai palestinesi. Ma ha fermato il
flusso del terrore. Questa volta gli israeliani,
davanti all’ennesimo attentato, non sono
sprofondati nella disperazione e nel
pessimismo. Ora hanno una risposta, una
soluzione efficace per far fronte alla micidiale
arma utilizzata dal nemico. La barriera
funziona: ha sconfitto il terrorismo.
Ma la barriera è molto di più. Ariel Sharon,
i suoi portavoce, i suoi sostenitori insistono
che si tratta soltanto di una misura di
sicurezza, provvisoria e removibile nel caso
arrivi la pace e finisca il terrorismo. Ma
Sharon si sta ritirando da Gaza, unilateralmente,
perché dice di non credere che al
momento ci sia la possibilità di raggiungere
un accordo di pace, e perché ritiene che
il terrorismo continuerà. E in questo si contraddice:
senza pace a breve termine e con
il terrorismo che continua, la barriera resterà
ancora per molto. E con il tempo, anche
i fatti transitori e provvisori acquistano
permanenza, perché creano nuove realtà.
Lo Stato che Sharon ha in mente
La barriera sta creando un confine.
Chiuso, come prima del 1967, ma un confine.
Troppi sono i 37 anni in cui le opposte
illusioni di chi credeva alla Grande Israele
e chi lottava per la Grande Palestina si sono
alimentate della mancanza di un confine
e della sempre più difficile opera di
tracciarne uno. Ora il confine sta sorgendo,
per buona pace di chi s’oppone. Se volete
sapere quale Stato palestinese Sharon abbia
in mente, guardate dove passerà la barriera.
Israele da ormai due anni la sta erigendo
nel cuore di questi luoghi per porre
un ostacolo invalicabile tra se stesso e i palestinesi:
a detta delle fonti ufficiali soltanto
quei palestinesi animati da intenzioni
assassine, che nei quattro anni di Intifada,
iniziata il 29 settembre 2000, hanno massacrato
in centinaia di attentati suicidi più di
mille israeliani. Ma il colpo d’occhio dà
un’altra impressione, che un giorno di viaggio
lungo i meandri della barriera conferma.
Questo è un confine, è qui per restare,
è qui per dividere, è qui per demarcare.
La sera esco a cena. Gerusalemme, così
deserta, vuota e desolata tre anni fa, quando
ogni autobus poteva essere una cassa da
morto, ogni bar una tomba, ogni ristorante
un cimitero, ora brulica di giovani, di turisti,
di gente con una tremenda voglia di vivere
nonostante la guerra. Ho visto la barriera
e non mi è piaciuta. Ma poi guardo la
vita che mi scorre attorno, finalmente senza
paura di morire a ogni angolo della strada.
E in tutto questo, la bruttura che sta sorgendo
nel cuore di questa terra appare di
nuovo un insignificante dettaglio.
Emanuele Ottolenghi