Monday, February 28, 2005

[stragi fasciste] Siamo tutti sciiti

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[ it.politica.internazionale ]

La Stampa, 1 marzo 2003

La guerra civile
dei sunniti
di Lucia Annunziata

Hilla è un'area a cento chilometri circa a Sud di Baghdad. A
predominante popolazione sciita. Sciiti sono così i centoventicinque
morti fatti dall'auto bomba esplosa ieri. Nel giorno in cui l'Iraq
piange la sua maggiore carneficina per mano terrorista dalla caduta di
Saddam, è bene fermarsi sulla estrazione sociale e religiosa dei morti.
L'opinione pubblica occidentale e in particolare quella italiana - a
dispetto (o forse a causa) della massa di notizie che arriva dall'Iraq -
continua infatti ad essere informata con termini generici usati
alternativamente, quali violenza, resistenza, guerra civile. E di
generici «civili» si parla in queste ore per definire le vittime
dell'attentato di Hilla. Quello che succede in Iraq da mesi ha invece
una sola firma: quella dei sunniti, o sunniti stretti in patto con le
organizzazioni al-qaediste; e un solo gruppo di vittime: gli sciiti. Si
tratta di un copione unico, con una unica azione: i sunniti e/o al Qaeda
tirano il gancio dell'esplosivo e gli sciiti muoiono. L'unica variante
agli sciiti, sono i cristiani. Lo scopo di questi attacchi è preciso:
riuscire a provocare una reazione. Se la massa dei poveri, dei
tormentati sciiti iracheni prendesse le armi, gettando nella mischia il
peso del loro sessanta per cento demografico nonché la radicalità della
loro fede, sarebbe l'Apocalisse in Mesopotamia, il punto di caduta
finale, la guerra civile insomma. Ogni processo politico sarebbe a quel
punto morto, nonché ogni prospettiva di pace. E' questo il baratro su
cui l'Iraq è affacciato da tempo, fin dai giorni dopo la caduta di
Saddam. Se questo confine, quello della guerra civile, non è stato
ancora attraversato è solo grazie al fatto che, appunto, gli sciiti
muoiono e non rispondono, si fanno massacrare ma non prendono le armi.
Non che il loro stoicismo e la loro pazienza siano segno di una
particolare indole o approccio filosofico. La ragione per cui non
rispondono è l'obbedienza alla decisione dei loro leaders religiosi di
arrivare al potere per vie legali: ma quanto durerà? A fronte di un
continuo aumento della quantità e della grandezza degli attacchi - come
sta succedendo - quanto profondo si rivelerà il controllo della fede e
della logica sulla rabbia e la paura? Questo è il panorama con cui
l'opinione pubblica occidentale deve misurarsi, non con indeterminate
violenze.

---

Tb

[Radicali] Pasolini: lo scandalo radicale

http://radicali.radicalparty.org/search_view.php?id=45525

Archivio Partito radicale
Pasolini Pier Paolo - 1 novembre 1975
Lo scandalo Radicale
Pier Paolo Pasolini

Sommario: Pubblichiamo il testo dell'intervento che Pier Paolo Pasolini
avrebbe dovuto tenere al Congresso del Partito radicale del novembre
1975. Poté essere solo letto, davanti ad una platea sconvolta e muta,
perché due giorni prima Pasolini moriva ucciso. C'è un grave pericolo -
ci avverte il poeta e saggista - che incombe sul Partito radicale
proprio per i grandi successi ottenuti nella conquista dei diritti
civili. Un nuovo conformismo di sinistra si appresta ad appropriarsi
della vostra battaglia per i diritti civili »creando un contesto di
falsa tolleranza e di falso laicismo . Proprio la cultura radicale dei
diritti civili, della Riforma, della difesa delle minoranze sarà usata
dagli intellettuali del sistema come forza terroristica, violenta e
oppressiva. Il potere insomma si accinge ad »assumere gli intellettuali
progressisti come propri chierici . La previsione di Pasolini si è
avverata, non solo in Italia, ma nel resto della società occidentale
dove, proprio in nome del progressismo e del moderni

smo, si è affermata una nuova classe di potere totalizzante e
trasformista, di certo più pericolosa delle tradizionali classi
conservatrici. »Contro tutto questo - concludeva Pasolini - voi non
dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi
stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili.
Dimenticate subito i grandi successi e continuate imperterriti,
ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi
col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare.

("Numero unico" per il 35· Congresso del Partito Radicale - Budapest
22-26 aprile 1989 - Edizioni in Inglese, Ungherese, Serbo Croato)

Prima di tutto devo giustificare la presenza della mia persona qui. Non
sono qui come radicale. Non sono qui come socialista. Non sono qui come
progressista. Sono qui come marxista che vota per il Partito Comunista
Italiano, e spera molto nella nuova generazione di comunisti. Spera
nella nuova generazione di comunisti almeno come spera nei radicali.
Cioè con quel tanto di volontà e irrazionalità e magari arbitrio che
permettono di spiazzare - magari con un occhio a Wittgenstein - la
realtà, per ragionarci sopra liberamente. Per esempio: il Pci ufficiale
dichiara di accettare ormai, e sine die, la prassi democratica. Allora
io non devo aver dubbi: non è certo alla prassi democratica codificata e
convenzionalizzata dall'uso di questi tre decenni che il Pci si
riferisce: esso si riferisce indubbiamente alla prassi democratica
intesa nella purezza originaria della sua forma, o, se vogliamo, del suo
patto formale.

Alla religione laica della democrazia. Sarebbe un'autodegradazione
sospettare che il Pci si riferisca alla democraticità dei democristiani;
e non si può dunque intendere che il Pci si riferisca alla
democraticità, per esempio, dei radicali.

Paragrafo primo.

A) Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei
diritti. B) Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere
dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano. C) Sono
abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti
degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli). D) Ci
sono, nella nostra società, degli sfruttati e degli sfruttatori. Ebbene,
tanto peggio per gli sfruttatori. E) Ci sono degli intellettuali, gli
intellettuali impegnati, che considerano dovere proprio e altrui far
sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che hanno dei diritti;
incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti ma ci
rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico
impulso a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine,
incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli
sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati.

Tra questi intellettuali che da più di un secolo si sono assunti un
simile ruolo, negli ultimi anni si sono chiaramente distinti dei gruppi
particolarmente accaniti a fare di tale ruolo un ruolo estremistico.
Dunque mi riferisco agli estremisti, giovani, e ai loro adulatori
anziani. Tali estremisti (voglio occuparmi soltanto dei migliori) si
pongono come obiettivo primo e fondamentale quello di diffondere tra la
gente direi, apostolicamente, la coscienza dei propri diritti. Lo fanno
con determinazione, rabbia, disperazione, ottimistica pazienza o
dinamitarda impazienza, secondo i casi (...)

Paragrafo secondo

Disobbedendo alla distorta volontà degli storici e dei politici di
mestiere, oltre che a quella delle femministe romane - volontà che mi
vorrebbe confinato in Elicona esattamente come i mafiosi a Ustica - ho
partecipato una sera di questa estate a un dibattito politico in una
città del Nord. Come sempre poi succede, un gruppo di giovani ha voluto
continuare il dibattito anche per strada, nella serata calda e piena di
canti. Tra questi giovani c'era un greco. Che era, appunto, uno di
quegli estremisti marxisti »simpatici di cui parlavo. Sul suo fondo di
piena simpatia, si innestavano però manifestamente tutti i più vistosi
difetti della retorica e anche della sottocultura estremistica. Era un
»adolescente un po' laido nel vestire; magari anche addirittura un po'
scugnizzo: ma, nel tempo stesso, aveva una barba di vero e proprio
pensatore, qualcosa tra Menippo e Aramis; ma i capelli , lunghi fino
alle spalle, correggevano l'eventuale funzione gestuale e magniloquente
della barba, con qualcosa di esotico e ir

razionale: un'allusione alla filosofia braminica, all'ingenua alterigia
dei gurumparampara. Il giovane greco viveva questa sua retorica nella
più completa assenza di autocritica: non sapeva di averli, questi suoi
segni così vistosi, e in questo era adorabile esattamente come coloro
che non sanno di avere diritti... Tra i suoi difetti vissuti così
candidamente, il più grave era certamente la vocazione a diffondere tra
la gente (»un po' alla volta , diceva: per lui la vita era una cosa
lunga, quasi senza fine) la coscienza dei propri diritti e la volontà di
lottare per essi. Ebbene; ecco l'enormità, come l'ho capita in quello
studente greco, incarnata nella sua persona inconsapevole. Attraverso il
marxismo, l'apostolato dei giovani estremisti di estrazione borghese -
l'apostolato in favore della coscienza dei diritti e della volontà di
realizzarli - altro non è che la rabbia inconscia del borghese povero
contro il borghese ricco, del borghese giovane contro il borghese
vecchio, del borghese impotente contro il

borghese potente, del borghese piccolo contro il borghese grande. E'
un'inconscia guerra civile - mascherata da lotta di classe - dentro
l'inferno della coscienza borghese. (Si ricordi bene: sto parlando di
estremisti, non di comunisti). Le persone adorabili che non sanno di
avere diritti, oppure le persone adorabili che lo sanno ma ci rinunciano
- in questa guerra civile mascherata - rivestono una ben nota e antica
funzione: quella di essere carne da macello. Con inconscia ipocrisia,
essi sono utilizzati, in primo luogo, come soggetti di un transfert che
libera la coscienza dal peso dell'invidia e del rancore economico; e, in
secondo luogo, sono lanciati dai borghesi giovani, poveri, incerti e
fanatici, come un esercito di paria »puri , in una lotta
inconsapevolmente impura, appunto contro i borghesi vecchi, ricchi,
certi e fascisti.

Intendiamoci: lo studente greco che qui ho preso a simbolo era a tutti
gli effetti (salvo rispetto a una feroce verità) un »puro anche lui,
come i poveri. E questa »purezza ad altro non era dovuta che al
»radicalismo che era in lui.

Paragrafo terzo

Perché è ora di dirlo: i diritti di cui qui sto parlando sono i »diritti
civili che, fuori da un contesto strettamente democratico, come poteva
essere un'ideale democrazia puritana in Inghilterra o negli Stati Uniti
- oppure laica in Francia - hanno assunto una colorazione classista.
L'italianizzazione socialista dei »diritti civili non poteva fatalmente
(storicamente) che volgarizzarsi. Infatti: l'estremista che insegna agli
altri ad avere dei diritti, che cosa insegna? Insegna che chi serve ha
gli identici diritti di chi comanda. L'estremista che insegna agli altri
a lottare per ottenere i propri diritti, che cosa insegna? Insegna che
bisogna usufruire degli identici diritti dei padroni. L'estremista che
insegna agli altri che coloro che sono sfruttati dagli sfruttatori sono
infelici, che cosa insegna? Insegna che bisogna pretendere l'identica
felicità degli sfruttatori. Il risultato che in tal modo eventualmente è
raggiunto è dunque una identificazione: cioè nel caso migliore una
democratizzazione in se

nso borghese. La tragedia degli estremisti consiste così nell'aver fatto
regredire una lotta che essi verbalmente definiscono rivoluzionaria
marxista-leninista, in una lotta civile vecchia come la borghesia:
essenziale alla stessa esistenza della borghesia. La realizzazione dei
propri diritti altro non fa che promuovere chi li ottiene al grado di
borghese.

Paragrafo quarto

In che senso la coscienza di classe non ha niente a che fare con la
coscienza dei diritti civili marxistizzati? In che senso il Pci non ha
niente a che fare con gli estremisti (anche se alle volte, per via della
vecchia diplomazia burocratica, li chiama a sé: tanto, per esempio, da
aver già codificato il Sessantotto sulla linea della Resistenza)? E'
abbastanza semplice: mentre gli estremisti lottano per i diritti civili
marxistizzati pragmaticamente, in nome, come ho detto, di una
identificazione finale tra sfruttato e sfruttatore, i comunisti, invece,
lottano per i diritti civili in nome di una alterità. Alterità (non
semplice alternativa) che per sua stessa natura esclude ogni possibile
assimilazione degli sfruttati con gli sfruttatori. La lotta di classe è
stata finora anche una lotta per la prevalenza di un'altra forma di vita
(per citare ancora Wittgenstein potenziale antropologo), cioè di
un'altra cultura. Tanto è vero che le due classi in lotta erano anche -
come dire? - razzialmente diverse. E in rea

ltà, in sostanza, ancora lo sono. In piena età dei consumi.

Paragrafo quinto

Tutti sanno che gli »sfruttatori quando (attraverso gli »sfruttati )
producono merce, producono in realtà umanità (rapporti sociali). Gli
»sfruttatori della seconda rivoluzione industriale (chiamata altrimenti
consumismo: cioè grande quantità, beni superflui, funzione edonistica)
producono nuova merce: sicché producono nuova umanità (nuovi rapporti
sociali). Ora, durante i due secoli circa della sua storia, la prima
rivoluzione industriale ha prodotto sempre rapporti sociali
modificabili. La prova? La prova è data dalla sostanziale certezza della
modificabilità dei rapporti sociali in coloro che lottavano in nome
dell'alterità rivoluzionaria. Essi non hanno mai opposto all'economia e
alla cultura del capitalismo un'alternativa, ma, appunto, un'alterità.
Alterità che avrebbe dovuto modificare radicalmente i rapporti sociali
esistenti: ossia, detta antropologicamente, la cultura esistente. In
fondo il »rapporto sociale che si incarnava nel rapporto tra servo della
gleba e feudatario, non era poi molto diver

so da quello che si incarnava nel rapporto tra operaio e padrone
dell'industria: e comunque si tratta di »rapporti sociali che si sono
dimostrati ugualmente modificabili. Ma se la seconda rivoluzione
industriale - attraverso le nuove immense possibilità che si è data -
producesse da ora in poi dei »rapporti sociali immodificabili? Questa è
la grande e forse tragica domanda che oggi va posta. E questo è in
definitiva il senso della borghesizzazione totale che si sta verificando
in tutti i paesi: definitivamente nei grandi paesi capitalistici,
drammaticamente in Italia. Da questo punto di vista le prospettive del
capitale appaiono rosee. I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano
in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo
capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e
artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si
limiterebbe a cambiare storicamente un tipo d'uomo: ma l'umanità stessa.
Va aggiunto che il consumismo può creare dei »r

apporti sociali immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto
del vecchio clericofascismo un nuovo tecnofascismo (che potrebbe
comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi antifascismo), sia, com'è
ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia
edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa
realizzazione, cioè, dei diritti civili. In ambedue i casi lo spazio per
una reale alterità rivoluzionaria verrebbe ristretto all'utopia o al
ricordo: riducendo quindi la funzione dei partiti marxisti ad una
funzione socialdemocratica, sia pure, dal punto di vista storico,
completamente nuova.

Paragrafo sesto

Caro Pannella, caro Spadaccia, cari amici radicali, pazienti con tutti
come santi, e quindi anche con me: l'alterità non è solo nella coscienza
di classe e nella lotta rivoluzionaria marxista. L'alterità esiste anche
di per sé nell'entropia capitalistica. Quivi essa gode (o per meglio
dire, patisce, e spesso orribilmente patisce) la sua concretezza, la sua
fattualità. Ciò che è, e l'altro che è in esso, sono due dati culturali.
Tra tali due dati esiste un rapporto di prevaricazione, spesso, appunto,
orribile. Trasformare il loro rapporto in un rapporto dialettico è
appunto la funzione, fino a oggi, del marxismo: rapporto dialettico tra
la cultura della classe dominante e la cultura della classe dominata.
Tale rapporto dialettico non sarebbe dunque più possibile là dove la
cultura della classe dominata fosse scomparsa, eliminata, abrogata, come
dite voi. Dunque, bisogna lottare per la conservazione di tutte le
forme, alterne e subalterne, di cultura. E' ciò che avete fatto voi in
tutti questi anni, specialmen

te negli ultimi. E siete riusciti a trovare forme alterne e subalterne
di cultura dappertutto: al centro della città, e negli angoli più
lontani, più morti, più infrequentabili. Non avete avuto alcun rispetto
umano, nessuna falsa dignità, e non siete soggiaciuti ad alcun ricatto.
Non avete avuto paura né di meretrici né di pubblicani, e neanche - ed è
tutto dire - di fascisti.

Paragrafo settimo

I diritti civili sono in sostanza i diritti degli altri. Ora, dire
alterità è enunciare un concetto quasi illimitato. Nella vostra mitezza
e nella vostra intransigenza, voi non avete fatto distinzioni. Vi siete
compromessi fino in fondo per ogni alterità possibile. Ma una
osservazione va fatta. C'è un'alterità che riguarda la maggioranza e
un'alterità che riguarda le minoranze. Il problema che riguarda la
distruzione della cultura della classe dominata, come eliminazione di
una alterità dialettica e dunque minacciosa, è un problema che riguarda
la maggioranza. Il problema del divorzio è un problema che riguarda la
maggioranza. Il problema dell'aborto è un problema che riguarda la
maggioranza. Infatti gli operai e i contadini, i mariti e le mogli, i
padri e le madri costituiscono la maggioranza. A proposito della difesa
generica dell'alterità, a proposito del divorzio, a proposito
dell'aborto, avete ottenuto dei grandi successi. Ciò - e voi lo sapete
benissimo - costituisce un grande pericolo. Per voi - e voi

sapete benissimo come reagire - ma anche per tutto il paese che invece,
specialmente ai livelli culturali che dovrebbero essere più alti,
reagisce regolarmente male. Cosa voglio dire con questo? Attraverso
l'adozione marxistizzata dei diritti civili da parte degli estremisti -
di cui ho parlato nei primi paragrafi di questo mio intervento - i
diritti civili sono entrati a far parte non solo della coscienza, ma
anche della dinamica di tutta la classe dirigente italiana di fede
progressista. Non parlo dei vostri simpatizzanti... Non parlo di coloro
che avete raggiunto nei luoghi più lontani e diversi: fatto di cui siete
giustamente orgogliosi. Parlo degli intellettuali socialisti, degli
intellettuali comunisti, degli intellettuali cattolici di sinistra,
degli intellettuali generici (...)

Paragrafo ottavo

So che sto dicendo delle cose gravissime. D'altra parte era inevitabile.
Se no cosa sarei venuto a fare qui? Io vi prospetto - in un momento di
giusta euforia delle sinistre - quello che per me è il maggiore e
peggiore pericolo che attende specialmente noi intellettuali nel
prossimo futuro. Una nuova »trahison des clercs : una nuova
accettazione; una nuova adesione; un nuovo cedimento al fatto compiuto;
un nuovo regime sia pure ancora soltanto come nuova cultura e nuova
qualità di vita. Vi richiamo a quanto dicevo alla fine del paragrafo
quinto: il consumismo può rendere immodificabili i nuovi rapporti
sociali espressi dal nuovo modo di produzione »creando come contesto
alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di
falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili . Ora,
la massa degli intellettuali che ha mutuato da voi, attraverso una
marxizzazione pragmatica di estremisti, la lotta per i diritti civili
rendendola così nel proprio codice progressista, o conformismo d

i sinistra, altro non fa che il gioco del potere: tanto più un
intellettuale progressista è fanaticamente convinto delle bontà del
proprio contributo alla realizzazione dei diritti civili, tanto più, in
sostanza, egli accetta la funzione socialdemocratica che il potere gli
impone abrogando, attraverso la realizzazione falsificata e totalizzante
dei diritti civili, ogni reale alterità. Dunque tale potere si accinge
di fatto ad assumere gli intellettuali progressisti come propri
chierici. Ed essi hanno già dato a tale invisibile potere una invisibile
adesione intascando una invisibile tessera. Contro tutto questo voi non
dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi
stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili.

Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti,
ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi
col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare.

[Thomas Mann] L' Europa incantata dalla decadenza

Times New RomanSigmund Ginzberg

su "La Montagna Incantata"

Il Foglio

Nel grande romanzo di Thomas Mann la metafora della sua vecchiaia e
della sua “simpatia con la morte”

Leggiamo sui giornali che entro fine novembre chiude, dopo 140 anni di
attività, il sanatorio di Davos che aveva ispirato “La montagna
incantata”. Dicono che era proprio quello, il Valbella, con la sua
cupola zincata, e la facciata balconata che si rivolge verso
fondovalle, quella su cui si stendevano i tisici a respirare, avvolti
dalle coperte, l’aria fresca, anche se nel romanzo si chiama con un
altro nome: Berghof. Ma avrebbe potuto essere un altro: a quell’epoca
a Davos di sanatori per malati di tubercolosi ce n’erano almeno una
trentina. Quello in cui Thomas Mann aveva trascorso tre settimane nel
1912 in visita alla moglie Katia, affetta da una forma lieve, si
chiamava Waldsanatorium, e da tempo è stato trasformato in hotel, che
ospita sciatori d’inverno, vacanzieri d’estate, e gli ospiti del
famoso Forum della globalizzazione economica nella stagione morta. In
sé non è una grande notizia. Ma riesce a emozionare ugualmente, carica
com’è di simbolismi degni di uno dei romanzi dichiaratamente più
carichi di metafore e simboli, molteplici possibili letture, della
letteratura moderna. Da tempo non c’è più la tubercolosi classica, che
nell’Europa di inizi ’900 superava come causa di morte il cancro e le
malattie cardiovascolari (salvo l’emergere recente di nuovi ceppi
insensibili agli antibiotici). C’è l’Aids, ma costa troppo curarsela
in Svizzera. E comunque pare che i trattamenti in alta montagna gli
facessero più male che bene. Neanche la Svizzera è quella di una
volta. Ma ancora una volta, come quasi un secolo fa, si respira
nell’aria del vecchio continente una sensazione di smarrimento, un
odore di decadenza e sfacimento, l’impressione che un’epoca si sia
chiusa, un intero modo di vita cui ci eravamo abituati nei decenni
scorsi stia tramontando – così come il romanzo di Mann voleva essere
il “canto del cigno” della Belle époque – mentre si affollano
interrogativi senza risposta su cosa c’è da aspettarsi al suo posto.
L’Europa ricomincia a sentirsi un po’ come i pazienti che venivano
invitati a fermarsi in sanatorio per qualche settimana, e poi
finiscono per restarci anni, e ci muoiono. La guarigione economica,
tante volte preannunciata, data per imminente, o almeno predetta come
inevitabile, non si vede. Il Valbella, leggiamo, era gestito con
capitali tedeschi, ed è proprio la Germania la maggiore delusione. Il
“sorpasso” dell’America è rinviato sine die. Così come gli “Stati
uniti d’Europa”. Comincia a non fidarsi dei suoi dottori. Ma non
saprebbe a chi altro rivolgersi. Arranca nei suoi dubbi. La sua storia
dovrebbe averla vaccinata contro stregoni, profeti e fanatici,
“salvatori dell’umanità” compresi. E’ ragionevole ritenere che non si
trovi sull’orlo di una catastrofe come fu la Prima guerra mondiale
(con le sue lunghe propaggini nella Seconda). Non percepisce il
terrorismo come una minaccia mortale. Forse non si sta accorgendo di
invecchiare, o non se ne preoccupa quanto dovrebbe (c’è ancora tempo
perché ognuno in età lavorativa debba sostentare due pensionati). Tira
avanti, ipnotizzata dal tran tran. Annoiata, quasi rassegnata. Con una
sensazione di malessere percepibile, ma non apocalittico. “Metafora
della malattia”, è stato definito il romanzo di Thomas Mann. “Danza
macabra in un hotel di lusso”, ha detto qualcun altro. Radiografia di
un’epoca in disfacimento, quella del primo anteguerra europeo, ammise
l’autore. Con rimpianto struggente, ma anche una punta di necrofilia.
Morbosa quanto il pegno erotico che si scambiano il protagonista e la
donna amata: una radiografia del torace, senza testa, che mostra gli
organi come ombre, quasi fossero già in disfacimento. Una
rappresentazione incantata, in ammirazione, non in orrore, della
decomposizione dall’interno, come quella che ci viene offerta dei
dipinti di Francis Bacon o Lucien Freud. “Un libro di simpatia con la
morte”, il modo in cui Mann l’avrebbe definito nel saggio “Su me
stesso”. Una composizione musicale sulla decadenza, come lo sono le
sinfonie di Mahler (“Devo annoverarmi tra gli scrittori musicisti. Per
me il romanzo è sempre stato una sinfonia, un lavoro di contrappunto,
un tessuto di temi dove le idee fanno la parte dei motivi musicali”,
avrebbe spiegato, sempre Mann, parlando della sua “Montagna
incantata”). Ma no, “il solo romanzo umoristico dei nostri giorni”,
gli era capitato di scrivere in un’altra occasione al critico svizzero
Robert Faesi. Forse non bisognerebbe badare troppo a quel che di un
romanzo ne dice l’autore. Pesa di più quel che ne cava il lettore. Le
apparenti contraddizioni del “maestro delle contraddizioni”
rivelano che – prerogativa di tutti i veri
capolavori – lo si può leggere in molti modi, e ogni volta in modo
diverso. Thomas Mann aveva iniziato una sua lezione agli studenti di
Princeton con la richiesta – che ammetteva “molto arrogante” – di
“leggerlo due volte”. C’è chi, come Massimo Cacciari, dice di averlo
letto almeno dodici volte. Andrebbe letto, avvertiva, “su molti
piani”. Di cui, “ciò che molta gente vi scorgeva da principio, e anche
oggi vi scorge: una satira della vita nei sanatori per malati di
polmoni” è solo quello iniziale, di “sfondo”, o di “primo piano” che
si voglia. Seguono quello “romantico”, quello filosofico, quello
allegorico e simbolico, del mito, quello medico-biologico-scientifico,
quello dell’eterna iniziazione, persino quello esoterico e occultista.
Ogni lettore vi aggiungeva via via il suo. E l’autore non ne ha mai
rifiutato uno, nemmeno quelli a cui confessa di “non averci pensato”
prima che un critico glielo facesse notare. Gli piaceva pensarci anche
come a un romanzo sui misteri del tempo. Tempo storico, tempo puro, e
“tempo che si accorcia in modo abnorme a causa della monotonia”.
Insomma, anche un romanzo sulla noia. “Castorp, vecchio mio, lei si
annoia. Sta con la testa ciondolone, lo vedo tutti i giorni, l’uggia
le sta scritta in fronte. E’ un bambolone disgustato, viziato dai
fatti impressionanti, e se non le si offre ogni giorno qualcosa di
eccezionale, mette il broncio e borbotta contro la stagione morta”:
così si rivolge il dottor Behrens al protagonista del romanzo,
l’ingegnere navale Hans Castorp, “giovane semplice ma
simpatico”, borghese ed europeo medio, che al sanatorio era
arrivato per una visita di qualche giorno al cugino tisico, e finirà
per restarci sette anni. “Diremo di più. Non soltanto lui, Castorp,
pareva arrivato a quel punto morto, ma egli aveva anche l’impressione
che il mondo, tutto insieme, fosse nelle medesime condizioni, ossia:
pensava che fosse difficile distinguere il particolare
dall’universale”, insiste poco dopo il narratore (Volume II, capitolo
VII, sottocapitolo intitolato “La grande stupidità”, pp. 619 e 621,
citiamo dalla traduzione di Ervino Pocar, per Corbaccio). E’ già molto
avanti nella sua “formazione”, compresa quella sentimentale, e nella
sua “ricerca” del senso della vita (una sorta di eterna ricerca del
“Santo Graal”, secondo molti interpreti, prontamente assecondati dallo
stesso autore). Ha superato tutte le prove di “iniziazione”. E’ molto
avanti nella “guarigione”, anzi guarito, tanto che già da tempo
volevano dimetterlo. A prima vista non gli manca nulla. Non ha il
problema di farsi rimborsare dalla mutua (ci pensa la famiglia). Si è
perfettamente abituato ai ritmi della vita da sanatorio-grand hotel,
ai cinque pasti al giorno (la sua non è noia da assuefazione, non c’è
nulla di avvin- cente quanto le abitudini, ci si
può innamorare anche di una mensa aziendale), alle magnifiche
passeggiate, ai piccoli riti quotidiani, alla mutevole compagnia,
all’andirivieni di ospiti che se ne vanno (per lo più in bara) o che
arrivano, all’alternarsi quasi sempre uguale delle stagioni. Non gli
mancano le distrazioni e l’entertainment: non c’è ancora la
televisione, ma gli ospiti del sanatorio sopperiscono con grande
fantasia di giochi di società, fino alle sedute spiritiche. Producono
una sorta di Grande fratello o di Isola dei famosi non stop. Un intero
capitolo, intitolato “Profusione di armonie” è dedicato
ai gusti musicali, scatenati dall’arrivo di un’ “invenzione
che fa epoca”, “uno scrigno lucidato in nero opaco che, un po’ più
fondo che largo, attaccato con un cavo a una presa elettrica sulla
parete, stava semplice e distinto su un tavolino…”: no, non la tv ma
il suo antenato, un grammofono marca Polyhymnia. E’ un ragazzo ammodo,
fine ed educato, senza troppi grilli per la testa, senza fuori eroici,
sensibile ma abbastanza controllato anche nelle passioni, compresa
quella travolgente per la sua educatrice sentimentale, la felina
madame Claudia Chauchat, dai conturbanti “occhi circassi”. Il problema
è che non ha trovato risposta a nessuno degli interrogativi della sua
“ricerca”. Né quelli terra terra (la medicina, la biologia, il
funzionamento del suo corpo, i rapporti col prossimo, le questioni
personali, l’amore per le donne, o un rimosso amore per gli uomini o
quelle sociali e storiche), né quelli “alti” (il senso del tempo,
quello della vita, quello delle morte). Presumibilmente le risposte
non le troverà quando, a conclusione del romanzo, lasciata la prigione
incantata del sanatorio, sceso finalmente “in pianura”, lo lasciamo
sotto le granate che scoppiano durante l’assalto alle trincee nemiche,
immerso nel fango, nel sangue e i brandelli di carne dei suoi
commilitoni. E, se è per questo, non credo che le abbiamo ancora
trovate, malgrado siano passati quasi altri cent’anni, e malgrado
tante false avvisaglie, le diverse volte che pure era sembrato che
fossimo lì lì per arrivarci. Eppure c’è chi, per oltre metà romanzo,
gli aveva fatto una testa così, per convincerlo della via giusta. A
contendersi ferocemente e incessantemente l’anima del giovane Castorp,
nel coro di personaggi che ruotano attorno al sanatorio (tanti che ci
vorrebbe una scheda promemoria, come per quelli di “Guerra e pace” di
Tolstoj), spiccano il democratico, razionalista, liberale,
nazionalista, umanista, massone, progressista Ludovico Settembrini e
il rivoluzionario, reazionario, ebreo, gesuita Leo Naphta. Il figlio
di carbonaro Settembrini si presenta come l’incarnazione del
politically correct eclettico. Contrappone continuamente ragione
contro istinto, mente contro corpo, spirito contro natura, lavoro
contro ozio, Europa contro Asia, illuminismo contro medioevo,
democrazia contro totalitarismo. “Due principi, secondo la cosmogonia
settembriniana, erano in perpetuo conflitto per il possesso del mondo:
forza e giustizia, tirannia e libertà, superstizione e conoscenza,
legge di conservazione e legge del mutamento”. E’ un pacifista
militante, odia la guerra e la violenza, arriva a sostenere che la
stessa “esistenza del soldato è spiritualmente discutibile”. Come
esitare a scegliere, messa così? Non è solo il buon Castorp ad esserne
attratto. Lo è dichiaratamente lo stesso Thomas Mann, anche se lo
prende in giro, ne fa una macchietta “umoristica”: è “talvolta anche
il portavoce dell’autore”, si sarebbe spinto a confessare agli
studenti di Princeton che nel 1939 lo avrebbero invitato a tenergli
una lezione sulla “Montagna incantata”, pur mettendo subito le mani
avanti aggiungendo che però “non è certo l’autore stesso”. La sua
antitesi, altrettanto eclettica, è il figlio di un macellaio rituale
ebreo della Galizia, che l’acuta intelligenza ha portato al seminario
dei gesuiti, Naphta. Canzona le ingenuità dell’avversario, il suo
“buonismo”: “La liberalizzazione dell’islam! Magnifico. Il fanatismo
illuminato. Benissimo” (p. 374). Gli contrappone un cinismo e un
realismo altrettanto assoluti e fanatici: “Se crede che il risultato
di future rivoluzioni sarà… la libertà, s’inganna. In cinquecento anni
il principio della libertà si è compiuto ed è superato. Una pedagogia
che oggi si considera ancora figlia dell’illuminismo e scorge i suoi
mezzi educativi nella critica, nella liberazione e nella cura dell’io,
nella eliminazione di forme assolute… una siffatta pedagogia potrà
ancora riportare vittorie retoriche del momento, ma la sua
arretratezza è, per chi se ne intende, al di là di ogni dubbio. Tutte
le società educatrici hanno sempre saputo che cosa occorra realmente…:
il comando assoluto, il ferreo impegno, la disciplina, il sacrificio,
la negazione dell’io, la violazione della personalità. Credere infine
che la gioventù si compiaccia della libertà, significa fraintenderla
freddamente. Il suo più vivo piacere è l’obbedienza”, dice. E
aggiunge: “Essa ha bisogno, essa esige, essa saprà procurarsi… sapete
che cosa? Il terrore” (p. 394). Anzi: “Il terrore per la salvezza del
mondo e per la riconquista della redenzione finale, della fede in Dio
senza Stato e senza classi” (p. 397). Il terrore
santo, per “il rinnovamento della società sul modello dell’ideale e
comunista stato di Dio”. Un terrore rivoluzionario, “contro il mondo
internazionale del commercio e della speculazione”. Confusi? Una sorta
di archetipo di “catto- comunista”, un crociato che deride il buonismo
degli illusi, un giustificatore della guerra, del polso di ferro (ci
sono pagine in cui arriva a giustificare eloquentemente persino la
tortura) e che parla come bin Laden? Un laico e un massone che parla
invece come i pacifisti? La confusione potrebbe essere attribuita
all’anacronismo – questa specie di rissa da talk show televisivo, che
si protrae per quasi metà del romanzo – avviene in altra epoca, in cui
le “parti” della commedia possono apparire invertite. Ma la confusione
è probabilmente anche voluta. Chi dei due è più “di sinistra” o più
“di destra”? L’anima bella Settembrini che invoca a ogni piè sospinto
l’homo humanus, o il “comunista” e quasi prete Naphta che invoca
l’homo dei? Se lo chiede ad un certo punto anche Castorp, e arriva ad
una risposta stupefacente: “Naphta, argomentava, era bensì
rivoluzionario come Settembrini, ma lo era in senso conservatore, un
rivoluzionario della conservazione” (p. 453). I due litiganti hanno la
funzione di farsi da spalla, in qualche modo sostenersi, integrarsi
l’uno nell’altro. Ci viene persino preannunciato la prima volta che
Castorp li incontra: “Non vi dovete stupire, questo signore e io
litighiamo spesso, ma sempre in buona amicizia, e in base a parecchi
punti di intesa” (p. 373). C’è chi ha notato che i loro punti di
vista, nella loro simmetria, sono sostanzialmente identici. Ciascuno
dei due ha un rapporto approssimativo con la realtà, che piega alla
propria logica. Entrambi vedono il mondo come campo di battaglia di
forze contrapposte, e ciascuno dei due si allea con quella che
considera “superiore” all’altra. L’uno la chiama “ragione”, l’altro
“fede”. Entrambe portano in un vicolo cieco. Di vie da esplorare ce ne
sono in verità anche altre, forse tante quanti sono i personaggi, a
cominciare da quella incarnata dal piantatore di tabacco olandese in
pensione Pieter Peeperkorn, altra figura nicciana, spuntata si direbbe
dalla nascita della tragedia, la via dionisiaca ed edonista. Ma anche
quella porta alla stessa conclusione, l’unica certezza assoluta, che
tanto vale imparare ad apprezzare anziché temere: la morte, nel caso
specifico per suicidio. Nel 1937 agli studenti di Princeton Thomas
Mann non poteva che promuovere suo “portavoce” che il solo
Settembrini: nel frattempo erano venuti al potere Hitler in Germania e
Stalin in Russia. Nel 1924, l’anno in cui finì di scrivere “La
Montagna incantata” poteva invece permettersi di essere ancora un
pochino più ambiguo. I giovani di cui i due litiganti contendono
l’attenzione li stanno a sentire entrambi, non mandano nessuno dei due
al diavolo. Il cugino militare di Castorp, Joachim Ziemssen, uno dei
soli due personaggi che sembrano sottrarsi alla corrosiva ironia che
colpisce gli altri (l’altro è il nonno Hans Lorenz Castorp, grande e
severo borghese di vecchio stampo, che reincarna il nonno industriale
di Lubecca di Mann), diffida di Naphta, ma con un argomento bizzarro:
“Ha detto alcune cose che mi sono piaciu- te… Ma
lui non mi è piaciuto… guardalo bene, ha un naso da vero ebreo! Così
esili sono sempre soltanto i semiti….”. “Dici così soltanto perché sei
militare. Ma anche i Caldei avevano il naso così, eppure erano
straordinariamente in gamba…”, la risposta del nostro eroe (p. 379).
Naphta parla spesso, quasi testualmente, come Nietzsche. E
all’intellettuale tedesco a cavallo tra i due secoli Thomas Mann,
piaceva molto Nietzsche. I critici concordano nel ritenere che, per la
figura di Naphta, Mann si sia ispirato, anche fisicamente, ad un
personaggio reale, l’intellettuale comunista ed ebreo György Lukács
(“pallido, dal volto scavato, impaziente e triste”, nella descrizione
di un contemporaneo). E quando, dopo il fallimento della rivoluzione
“bolscevica” ungherese di Bela Kun del 1919, questi si rifugiò a
Vienna, Mann arrivò a scrivere all’arcivescovo della città per
intervenire in suo favore. Lukacs, molti anni dopo, gli avrebbe reso
il favore dedicandogli il libro su Thomas Mann e la tragedia degli
intellettuali tedeschi. E nella “Distruzione della ragione” si sarebbe
dato da fare per rinnegare Nietzsche. Mann non fu certo nazista –
dovette anzi scappare in America – tanto meno comunista. Ma la sua
generazione era profondamente influenzata dall’avversione e dal
sospetto che sia il fascismo che il comunismo nutrivano nei confronti
della “democrazia parlamentare”. Nelle “Considerazioni di un
impolitico” spiega perché “l’umanità tedesca sostanzialmente resiste
alla politicizzazione”: “Non voglio che il trafficare del Parlamento e
dei partiti porti all’infezione dell’intero corpo della nazione col
virus della politica… Voglio imparzialità, ordine e pulizia. Se
significa essere filistei, ebbene voglio essere filisteo. Se è essere
tedeschi, voglio, per Dio, essere chiamato tedesco”. Ebbe troppa
grazia, i nazisti lo volevano accoppare. Anche, e particolarmente
perché nel frattempo gli avevano dato il Nobel. Non era ebreo, ma
sarebbe finito probabilmente in un campo di sterminio, magari come
omosessuale in incognito. In America ebbe guai col maccartismo. Tanto
da decidersi a tornare in Europa, ma a Zurigo, non in Germania. Morì
in Svizzera, proprio nel paese dove aveva ambientato i dialoghi della
sua “Montagna incantata”. Settembrini e Naphta sono caricature. Così
come l’intero romanzo è all’insegna dell’humour e della satira. Era
stato concepito inizialmente come versione in parodia, leggera, dei
temi trattati in modo drammatico ne “La Morte a Venezia”. Per poi
gonfiarglisi in mano ed assumere le dimensioni di “romanzo
enciclopedico”. Fanno a gara nell’esagerare, caricaturare, le
rispettive posizioni, le condiscono di un profluvio di riferimenti
dotti, di citazioni erudite, di interpretazioni “ellittiche”, a tratti
demenziali, delle vicende storiche. Sono comici, ma non fanno ridere.
Sarà perché, nella loro a tratti scurrile demenzialità evocano fili
rossi inquietanti, da Ignazio di Loyola a Lenin e infine ad Osama bin
Laden da una parte, e da Voltaire a tutti i suoi più infami “bastardi”
dall’altra? O perché le stupidaggini che dicono hanno qualcosa di
profetico, al di là dei riferimenti che il loro creatore letterario
poteva avere al momento, come quando Naphta si lancia in
un’appassionata apologia della tortura come “risultato di un progresso
razionale”, passo in avanti rispetto al “giudizio di Dio”, all’ordalia
“soppressa perché la gente s’era accorta che il più forte riusciva
vittorioso anche quando aveva torto” (p. 452); o quando tocca invece
all’umanista Settembrini, militante di tutte le buone e giuste cause,
lo “zampognaro della pace” (p. 442) iscritto e promotore di ogni
immaginabile società illuminata e progressista, dalla “lega
internazionale per abolire la pena di morte”, al “congres-
so internazionale per la cremazione”, lanciarsi in una
perorazione della “distruzione del cadavere mediante le fiamme: quale
idea pulita, igienica e dignitosa, persino eroica, a paragone
dell’usanza di lasciare che si dissolva miseramente da sé e venga
assimilato da esseri inferiori!” (p. 450). Giustificazione delle Abu
Ghraib di ogni colore da parte del “comunista” che pure ha visto
morire il padre macellaio inchiodato in croce sulla porta della
propria casa in fiamme dopo un pogrom? Premonizione delle
giustificazioni “igieniche” dei forni crematori di Auschwitz? Non ha
importanza il motivo per cui Mann gli fa dire queste cose. Quel che
conta è ciò che possono evocare nel lettore al momento in cui le
legge. I due in costante battibecco sono stereotipi che provocano,
pasticciano, a un certo punto francamente annoiano. Eppu-
Lucien Freud. “Donna che
indossa un pull-over con farfalle”. Olio su tela, collezione privata
Satira
feroce del fanatismo e delle anime belle liberali; di un gesuita
diventato marxista e di un pacifista inconcludente
re, i “giovani”, a cominciare dal buon
Castorp, continuano a starli a sentire a bocca aperta. Hanno un
auditel elevato, si direbbe oggi. Generazione dopo generazione di
lettori della “Montagna incantata” vi ha ritrovato qualcosa dei
litiganti del proprio tempo. A me stavolta hanno fatto venire in
mente, chissà perché, in ruoli rovesciati, Oriana Fallaci e Tiziano
Terzani. Ad altri lettori potranno evocare figure diverse. Finirà,
nell’ultimo capitolo, con una sfida a duello tra i due. “Lei sbaglia
amico mio – ribatté Settembrini ad occhi chiusi… – lei sbaglia prima
di tutto con l’ipotesi che le cose dello spirito non possano
acquistare carattere personale… Ma sbaglia soprattutto con la
valutazione delle cose dello spirito in genere, che lei considera
troppo deboli da suscitare conflitti e passioni della durezza di
quelli che sorgono nella vita reale e non lasciano altra soluzione che
quella delle armi. Al contrario! L’astratto, il ripulito, l’ideale è a
un tempo anche l’assoluto, il rigoroso e contiene molte più
possibilità di odio, di incondizionata e irreconciliabile ostilità che
la vita sociale…” (p. 692). Ancora una volta inizia in modo ridicolo.
Come all’insegna del ridicolo sono i quadri preparatori del duello: la
disputa, a colpi seriosi di codice cavalleresco, tra polacchi, che
finisce in allegre schiaffeggiature, e la storia dell’antisemita “per
principio e spirito sportivo” Wiedeman, che finisce per “prendersi
bestialmente per i capelli” col commerciante ebreo Sonnenschein. “Una
scena d’orrore da far pietà. Si accapigliarono come ragazzini, ma con
la disperazione degli adulti quando giungono a tanto” (p. 678). Che
susciterebbe ilarità – se questa era l’intenzione dell’autore, ma
ancora una volta conta di più l’impressione sul lettore – se non
fossero seguite Kristallnacht e l’Olocausto. Si conclude invece
subito, e non a scoppio ritardato, in tragedia il duello così
comicamente introdotto tra Settembrini e Naphta. Settembrini, da
gentiluomo e pacifista qual è, spara per primo, e tira verso il cielo.
“ ‘Lei ha sparato in aria’, disse Naphta dominandosi e abbassando
l’arma. Settembrini rispose: ‘Io tiro dove mi pare’. ‘Lei sparerà
un’altra volta’. ‘Nemmeno per sogno. Ora tocca a Lei’. ‘Vigliacco!’,
gridò Naphta ammettendo così che ci vuole più coraggio a sparare che a
farsi sparare addosso; e alzata la pistola in modo che non aveva più
nulla a che fare col conflitto, si sparò alla tempia”(p. 698).
Siegmund Ginzberg
Times New Roman

[contagio democratico] Se le tre svolte continuano a svoltare...

[ A copy of this message has been posted to the newsgroup ]
[ it.politica.internazionale ]

The Tipping Points
By THOMAS L. FRIEDMAN

The other night on ABC's "Nightline," the host, Ted Koppel, posed an
intriguing question to Malcolm Gladwell, the social scientist who wrote
the path-breaking book "The Tipping Point," which is about how changes
in behavior or perception can reach a critical mass and then suddenly
create a whole new reality. Mr. Koppel asked: Can you know you are in
the middle of a tipping point, or is it only something you can see in
retrospect?

Mr. Gladwell responded that "the most important thing in trying to
analyze whether something is at the verge of a tipping point, is whether
it - an event - causes people to reframe an issue. ...A dumb example is
the Atkins's diet, which reframes dieting from thinking about it in
terms of avoiding calories and fat to thinking about it as avoiding
carbohydrates, which really changes the way people perceive dieting."

Mr. Koppel was raising the question because he wanted to explore whether
the Iraqi elections marked a tipping point in history. I was on the same
show, and in mulling over this question more I think that what's so
interesting about the Middle East today is that we're actually
witnessing three tipping points at once.

Thanks to eight million Iraqis defying "you vote, you die" terrorist
threats, Iraq has been reframed from a story about Iraqi "insurgents"
trying to liberate their country from American occupiers and their Iraqi
"stooges" to a story of the overwhelming Iraqi majority trying to build
a democracy, with U.S. help, against the wishes of Iraqi
Baathist-fascists and jihadists.

In Lebanon, the murder of former Prime Minister Rafik Hariri, which
Syria is widely suspected of having had a hand in, has reframed that
drama. A month ago, Lebanon was the story of a tiny Christian minority
trying to resist the Syrian occupation, which had the tacit support of
the pro-Syrian Lebanese government and a cadre of Lebanese politicians
who had sold their souls to Damascus. After the Hariri murder, Lebanese
just snapped. Lebanon became the story of a broad majority of Lebanese
Christians, Muslims and Druse no longer willing to remain silent, but
instead telling the Syrians, and their Lebanese puppet president, to "go
home." Lebanon went from a country where few dared whisper "When will
Syria leave?" to a country where nearly everyone was shouting it, and
Syria was having to answer.

The Israel-Palestine drama has gone from how Ariel Sharon will use any
means possible to sustain Israel's hold on Gaza, which he once said was
indispensable for the security of the Jewish state, to being about how
Mr. Sharon will use any means possible to evacuate Gaza - with its huge
Palestinian population - which he now says is necessary for saving
Israel as a Jewish state. The issue for the Palestinians is no longer
about how they resist the Israeli occupation in Gaza, but whether they
build a decent mini-state there - a Dubai on the Mediterranean. Because
if they do, it will fundamentally reshape the Israeli debate about
whether the Palestinians can be handed most of the West Bank.

While all three of these situations would constitute tipping points by
Mr. Gladwell's definition, I would feel a lot better about all three if
I thought that they were irreversible - and couldn't tip back the wrong
way.

For Iraq to be tipped in the right direction, it was necessary to have
the election we did, but that was not sufficient. The sufficient thing
is that a stable, decent Iraqi government emerge that can also quell the
Sunni insurgency. That will depend in part on America's willingness to
stay the course in Iraq. It will depend in part on the Shiite majority's
willingness to share power with the Sunnis - particularly one of the
crucial cabinet portfolios of defense, intelligence or interior - and
not go on a de-Baathification rampage. And it will depend in part on the
Sunni Arab leaders finally supporting the Iraqi majority.

For Lebanon to liberate itself from Syria, the Lebanese opposition
groups will have to find a way to translate their aspirations into a
withdrawal deal with Damascus. The Syrians will not be pushed out. And
for Israelis and Palestinians to really tip toward peace, the moderates
on both sides are really going to have to help each other succeed.

Indeed, in the Middle East playground - as Friday's suicide bomb in
Israel reminds us - tipping points are sometimes more like
teeter-totters: one moment you're riding high and the next minute you're
slammed to the ground. Nevertheless, what's happened in the last four
weeks is not just important, it's remarkable. And if we can keep all
three tipping points tipped, it will be incredible.

Sunday, February 27, 2005

[Radicali] Pasolini: lo scandalo radicale

http://radicali.radicalparty.org/search_view.php?id=45525

Pier Paolo Pasolini

Sommario: Pubblichiamo il testo dell'intervento che Pier Paolo Pasolini
avrebbe dovuto tenere al Congresso del Partito radicale del novembre
1975. Poté essere solo letto, davanti ad una platea sconvolta e muta,
perché due giorni prima Pasolini moriva ucciso. C'è un grave pericolo -
ci avverte il poeta e saggista - che incombe sul Partito radicale
proprio per i grandi successi ottenuti nella conquista dei diritti
civili. Un nuovo conformismo di sinistra si appresta ad appropriarsi
della vostra battaglia per i diritti civili »creando un contesto di
falsa tolleranza e di falso laicismo . Proprio la cultura radicale dei
diritti civili, della Riforma, della difesa delle minoranze sarà usata
dagli intellettuali del sistema come forza terroristica, violenta e
oppressiva. Il potere insomma si accinge ad »assumere gli intellettuali
progressisti come propri chierici . La previsione di Pasolini si è
avverata, non solo in Italia, ma nel resto della società occidentale
dove, proprio in nome del progressismo e del moderni

smo, si è affermata una nuova classe di potere totalizzante e
trasformista, di certo più pericolosa delle tradizionali classi
conservatrici. »Contro tutto questo - concludeva Pasolini - voi non
dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi
stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili.
Dimenticate subito i grandi successi e continuate imperterriti,
ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi
col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare.

("Numero unico" per il 35· Congresso del Partito Radicale - Budapest
22-26 aprile 1989 - Edizioni in Inglese, Ungherese, Serbo Croato)

Prima di tutto devo giustificare la presenza della mia persona qui. Non
sono qui come radicale. Non sono qui come socialista. Non sono qui come
progressista. Sono qui come marxista che vota per il Partito Comunista
Italiano, e spera molto nella nuova generazione di comunisti. Spera
nella nuova generazione di comunisti almeno come spera nei radicali.
Cioè con quel tanto di volontà e irrazionalità e magari arbitrio che
permettono di spiazzare - magari con un occhio a Wittgenstein - la
realtà, per ragionarci sopra liberamente. Per esempio: il Pci ufficiale
dichiara di accettare ormai, e sine die, la prassi democratica. Allora
io non devo aver dubbi: non è certo alla prassi democratica codificata e
convenzionalizzata dall'uso di questi tre decenni che il Pci si
riferisce: esso si riferisce indubbiamente alla prassi democratica
intesa nella purezza originaria della sua forma, o, se vogliamo, del suo
patto formale.

Alla religione laica della democrazia. Sarebbe un'autodegradazione
sospettare che il Pci si riferisca alla democraticità dei democristiani;
e non si può dunque intendere che il Pci si riferisca alla
democraticità, per esempio, dei radicali.

Paragrafo primo.

A) Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei
diritti. B) Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere
dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano. C) Sono
abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti
degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli). D) Ci
sono, nella nostra società, degli sfruttati e degli sfruttatori. Ebbene,
tanto peggio per gli sfruttatori. E) Ci sono degli intellettuali, gli
intellettuali impegnati, che considerano dovere proprio e altrui far
sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che hanno dei diritti;
incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti ma ci
rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico
impulso a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine,
incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli
sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati.

Tra questi intellettuali che da più di un secolo si sono assunti un
simile ruolo, negli ultimi anni si sono chiaramente distinti dei gruppi
particolarmente accaniti a fare di tale ruolo un ruolo estremistico.
Dunque mi riferisco agli estremisti, giovani, e ai loro adulatori
anziani. Tali estremisti (voglio occuparmi soltanto dei migliori) si
pongono come obiettivo primo e fondamentale quello di diffondere tra la
gente direi, apostolicamente, la coscienza dei propri diritti. Lo fanno
con determinazione, rabbia, disperazione, ottimistica pazienza o
dinamitarda impazienza, secondo i casi (...)

Paragrafo secondo

Disobbedendo alla distorta volontà degli storici e dei politici di
mestiere, oltre che a quella delle femministe romane - volontà che mi
vorrebbe confinato in Elicona esattamente come i mafiosi a Ustica - ho
partecipato una sera di questa estate a un dibattito politico in una
città del Nord. Come sempre poi succede, un gruppo di giovani ha voluto
continuare il dibattito anche per strada, nella serata calda e piena di
canti. Tra questi giovani c'era un greco. Che era, appunto, uno di
quegli estremisti marxisti »simpatici di cui parlavo. Sul suo fondo di
piena simpatia, si innestavano però manifestamente tutti i più vistosi
difetti della retorica e anche della sottocultura estremistica. Era un
»adolescente un po' laido nel vestire; magari anche addirittura un po'
scugnizzo: ma, nel tempo stesso, aveva una barba di vero e proprio
pensatore, qualcosa tra Menippo e Aramis; ma i capelli , lunghi fino
alle spalle, correggevano l'eventuale funzione gestuale e magniloquente
della barba, con qualcosa di esotico e ir

razionale: un'allusione alla filosofia braminica, all'ingenua alterigia
dei gurumparampara. Il giovane greco viveva questa sua retorica nella
più completa assenza di autocritica: non sapeva di averli, questi suoi
segni così vistosi, e in questo era adorabile esattamente come coloro
che non sanno di avere diritti... Tra i suoi difetti vissuti così
candidamente, il più grave era certamente la vocazione a diffondere tra
la gente (»un po' alla volta , diceva: per lui la vita era una cosa
lunga, quasi senza fine) la coscienza dei propri diritti e la volontà di
lottare per essi. Ebbene; ecco l'enormità, come l'ho capita in quello
studente greco, incarnata nella sua persona inconsapevole. Attraverso il
marxismo, l'apostolato dei giovani estremisti di estrazione borghese -
l'apostolato in favore della coscienza dei diritti e della volontà di
realizzarli - altro non è che la rabbia inconscia del borghese povero
contro il borghese ricco, del borghese giovane contro il borghese
vecchio, del borghese impotente contro il

borghese potente, del borghese piccolo contro il borghese grande. E'
un'inconscia guerra civile - mascherata da lotta di classe - dentro
l'inferno della coscienza borghese. (Si ricordi bene: sto parlando di
estremisti, non di comunisti). Le persone adorabili che non sanno di
avere diritti, oppure le persone adorabili che lo sanno ma ci rinunciano
- in questa guerra civile mascherata - rivestono una ben nota e antica
funzione: quella di essere carne da macello. Con inconscia ipocrisia,
essi sono utilizzati, in primo luogo, come soggetti di un transfert che
libera la coscienza dal peso dell'invidia e del rancore economico; e, in
secondo luogo, sono lanciati dai borghesi giovani, poveri, incerti e
fanatici, come un esercito di paria »puri , in una lotta
inconsapevolmente impura, appunto contro i borghesi vecchi, ricchi,
certi e fascisti.

Intendiamoci: lo studente greco che qui ho preso a simbolo era a tutti
gli effetti (salvo rispetto a una feroce verità) un »puro anche lui,
come i poveri. E questa »purezza ad altro non era dovuta che al
»radicalismo che era in lui.

Paragrafo terzo

Perché è ora di dirlo: i diritti di cui qui sto parlando sono i »diritti
civili che, fuori da un contesto strettamente democratico, come poteva
essere un'ideale democrazia puritana in Inghilterra o negli Stati Uniti
- oppure laica in Francia - hanno assunto una colorazione classista.
L'italianizzazione socialista dei »diritti civili non poteva fatalmente
(storicamente) che volgarizzarsi. Infatti: l'estremista che insegna agli
altri ad avere dei diritti, che cosa insegna? Insegna che chi serve ha
gli identici diritti di chi comanda. L'estremista che insegna agli altri
a lottare per ottenere i propri diritti, che cosa insegna? Insegna che
bisogna usufruire degli identici diritti dei padroni. L'estremista che
insegna agli altri che coloro che sono sfruttati dagli sfruttatori sono
infelici, che cosa insegna? Insegna che bisogna pretendere l'identica
felicità degli sfruttatori. Il risultato che in tal modo eventualmente è
raggiunto è dunque una identificazione: cioè nel caso migliore una
democratizzazione in se

nso borghese. La tragedia degli estremisti consiste così nell'aver fatto
regredire una lotta che essi verbalmente definiscono rivoluzionaria
marxista-leninista, in una lotta civile vecchia come la borghesia:
essenziale alla stessa esistenza della borghesia. La realizzazione dei
propri diritti altro non fa che promuovere chi li ottiene al grado di
borghese.

Paragrafo quarto

In che senso la coscienza di classe non ha niente a che fare con la
coscienza dei diritti civili marxistizzati? In che senso il Pci non ha
niente a che fare con gli estremisti (anche se alle volte, per via della
vecchia diplomazia burocratica, li chiama a sé: tanto, per esempio, da
aver già codificato il Sessantotto sulla linea della Resistenza)? E'
abbastanza semplice: mentre gli estremisti lottano per i diritti civili
marxistizzati pragmaticamente, in nome, come ho detto, di una
identificazione finale tra sfruttato e sfruttatore, i comunisti, invece,
lottano per i diritti civili in nome di una alterità. Alterità (non
semplice alternativa) che per sua stessa natura esclude ogni possibile
assimilazione degli sfruttati con gli sfruttatori. La lotta di classe è
stata finora anche una lotta per la prevalenza di un'altra forma di vita
(per citare ancora Wittgenstein potenziale antropologo), cioè di
un'altra cultura. Tanto è vero che le due classi in lotta erano anche -
come dire? - razzialmente diverse. E in rea

ltà, in sostanza, ancora lo sono. In piena età dei consumi.

Paragrafo quinto

Tutti sanno che gli »sfruttatori quando (attraverso gli »sfruttati )
producono merce, producono in realtà umanità (rapporti sociali). Gli
»sfruttatori della seconda rivoluzione industriale (chiamata altrimenti
consumismo: cioè grande quantità, beni superflui, funzione edonistica)
producono nuova merce: sicché producono nuova umanità (nuovi rapporti
sociali). Ora, durante i due secoli circa della sua storia, la prima
rivoluzione industriale ha prodotto sempre rapporti sociali
modificabili. La prova? La prova è data dalla sostanziale certezza della
modificabilità dei rapporti sociali in coloro che lottavano in nome
dell'alterità rivoluzionaria. Essi non hanno mai opposto all'economia e
alla cultura del capitalismo un'alternativa, ma, appunto, un'alterità.
Alterità che avrebbe dovuto modificare radicalmente i rapporti sociali
esistenti: ossia, detta antropologicamente, la cultura esistente. In
fondo il »rapporto sociale che si incarnava nel rapporto tra servo della
gleba e feudatario, non era poi molto diver

so da quello che si incarnava nel rapporto tra operaio e padrone
dell'industria: e comunque si tratta di »rapporti sociali che si sono
dimostrati ugualmente modificabili. Ma se la seconda rivoluzione
industriale - attraverso le nuove immense possibilità che si è data -
producesse da ora in poi dei »rapporti sociali immodificabili? Questa è
la grande e forse tragica domanda che oggi va posta. E questo è in
definitiva il senso della borghesizzazione totale che si sta verificando
in tutti i paesi: definitivamente nei grandi paesi capitalistici,
drammaticamente in Italia. Da questo punto di vista le prospettive del
capitale appaiono rosee. I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano
in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo
capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e
artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si
limiterebbe a cambiare storicamente un tipo d'uomo: ma l'umanità stessa.
Va aggiunto che il consumismo può creare dei »r

apporti sociali immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto
del vecchio clericofascismo un nuovo tecnofascismo (che potrebbe
comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi antifascismo), sia, com'è
ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia
edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa
realizzazione, cioè, dei diritti civili. In ambedue i casi lo spazio per
una reale alterità rivoluzionaria verrebbe ristretto all'utopia o al
ricordo: riducendo quindi la funzione dei partiti marxisti ad una
funzione socialdemocratica, sia pure, dal punto di vista storico,
completamente nuova.

Paragrafo sesto

Caro Pannella, caro Spadaccia, cari amici radicali, pazienti con tutti
come santi, e quindi anche con me: l'alterità non è solo nella coscienza
di classe e nella lotta rivoluzionaria marxista. L'alterità esiste anche
di per sé nell'entropia capitalistica. Quivi essa gode (o per meglio
dire, patisce, e spesso orribilmente patisce) la sua concretezza, la sua
fattualità. Ciò che è, e l'altro che è in esso, sono due dati culturali.
Tra tali due dati esiste un rapporto di prevaricazione, spesso, appunto,
orribile. Trasformare il loro rapporto in un rapporto dialettico è
appunto la funzione, fino a oggi, del marxismo: rapporto dialettico tra
la cultura della classe dominante e la cultura della classe dominata.
Tale rapporto dialettico non sarebbe dunque più possibile là dove la
cultura della classe dominata fosse scomparsa, eliminata, abrogata, come
dite voi. Dunque, bisogna lottare per la conservazione di tutte le
forme, alterne e subalterne, di cultura. E' ciò che avete fatto voi in
tutti questi anni, specialmen

te negli ultimi. E siete riusciti a trovare forme alterne e subalterne
di cultura dappertutto: al centro della città, e negli angoli più
lontani, più morti, più infrequentabili. Non avete avuto alcun rispetto
umano, nessuna falsa dignità, e non siete soggiaciuti ad alcun ricatto.
Non avete avuto paura né di meretrici né di pubblicani, e neanche - ed è
tutto dire - di fascisti.

Paragrafo settimo

I diritti civili sono in sostanza i diritti degli altri. Ora, dire
alterità è enunciare un concetto quasi illimitato. Nella vostra mitezza
e nella vostra intransigenza, voi non avete fatto distinzioni. Vi siete
compromessi fino in fondo per ogni alterità possibile. Ma una
osservazione va fatta. C'è un'alterità che riguarda la maggioranza e
un'alterità che riguarda le minoranze. Il problema che riguarda la
distruzione della cultura della classe dominata, come eliminazione di
una alterità dialettica e dunque minacciosa, è un problema che riguarda
la maggioranza. Il problema del divorzio è un problema che riguarda la
maggioranza. Il problema dell'aborto è un problema che riguarda la
maggioranza. Infatti gli operai e i contadini, i mariti e le mogli, i
padri e le madri costituiscono la maggioranza. A proposito della difesa
generica dell'alterità, a proposito del divorzio, a proposito
dell'aborto, avete ottenuto dei grandi successi. Ciò - e voi lo sapete
benissimo - costituisce un grande pericolo. Per voi - e voi

sapete benissimo come reagire - ma anche per tutto il paese che invece,
specialmente ai livelli culturali che dovrebbero essere più alti,
reagisce regolarmente male. Cosa voglio dire con questo? Attraverso
l'adozione marxistizzata dei diritti civili da parte degli estremisti -
di cui ho parlato nei primi paragrafi di questo mio intervento - i
diritti civili sono entrati a far parte non solo della coscienza, ma
anche della dinamica di tutta la classe dirigente italiana di fede
progressista. Non parlo dei vostri simpatizzanti... Non parlo di coloro
che avete raggiunto nei luoghi più lontani e diversi: fatto di cui siete
giustamente orgogliosi. Parlo degli intellettuali socialisti, degli
intellettuali comunisti, degli intellettuali cattolici di sinistra,
degli intellettuali generici (...)

Paragrafo ottavo

So che sto dicendo delle cose gravissime. D'altra parte era inevitabile.
Se no cosa sarei venuto a fare qui? Io vi prospetto - in un momento di
giusta euforia delle sinistre - quello che per me è il maggiore e
peggiore pericolo che attende specialmente noi intellettuali nel
prossimo futuro. Una nuova »trahison des clercs : una nuova
accettazione; una nuova adesione; un nuovo cedimento al fatto compiuto;
un nuovo regime sia pure ancora soltanto come nuova cultura e nuova
qualità di vita. Vi richiamo a quanto dicevo alla fine del paragrafo
quinto: il consumismo può rendere immodificabili i nuovi rapporti
sociali espressi dal nuovo modo di produzione »creando come contesto
alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di
falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili . Ora,
la massa degli intellettuali che ha mutuato da voi, attraverso una
marxizzazione pragmatica di estremisti, la lotta per i diritti civili
rendendola così nel proprio codice progressista, o conformismo d

i sinistra, altro non fa che il gioco del potere: tanto più un
intellettuale progressista è fanaticamente convinto delle bontà del
proprio contributo alla realizzazione dei diritti civili, tanto più, in
sostanza, egli accetta la funzione socialdemocratica che il potere gli
impone abrogando, attraverso la realizzazione falsificata e totalizzante
dei diritti civili, ogni reale alterità. Dunque tale potere si accinge
di fatto ad assumere gli intellettuali progressisti come propri
chierici. Ed essi hanno già dato a tale invisibile potere una invisibile
adesione intascando una invisibile tessera. Contro tutto questo voi non
dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi
stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili.

Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti,
ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi
col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare.

[Commentary] Islamization of Europe

David Pryce-Jones, the British political analyst, is a senior
editor of National Review and the author of, among other
books, The Closed Circle and The Strange Death of the
Soviet Empire. An earlier version of the present essay was delivered
at a conference at Boston University in October.
[29]
Only a few years ago, mass-murder attacks on
the West in the name of Islam, like those of
September 11, would have seemed like a thriller
writer’s fantasy. Nor would anyone have imagined
that a bombing by Islamists could swing a general
election in a European country, that a Dutch
movie-maker might be shot dead on the street for a
film about the abuse of women in Islam, or that one
might find oneself watching, on television, the beheading
of Western hostages by men crying out Allahu
Akhbar! over their savage deeds. Pakistan now
has a nuclear bomb, and this weapon is widely described
as an Islamic bomb. To judge by their pronouncements,
the Islamist leaders of Iran can hardly
wait to perfect and use their derivative of it.
At present, it is not clear whether the religious/
ideological rage that is the motive force behind these
developments has any limits, whether it may yet succeed
in mobilizing truly huge numbers of Muslim
masses, or whether it can be deflected or crushed.
What is clear is that a phenomenon that at first
looked like a cloud no bigger than a man’s hand has
lashed up into a crisis with global implications.
Does this crisis amount to a “clash of civilizations”?
Many people reject that notion as too sweeping or
downright misleading. Yet whether or not it applies
to, say, the situation in Iraq, or to the war on terror,
the phrase has much to recommend it as a description
of what is going on inside Europe today. As Yves
Charles Zarka, a French philosopher and analyst, has
written: “there is taking place in France a central
phase of the more general and mutually conflicting
encounter between the West and Islam, which only
someone completely blind or of radical bad faith, or
possibly of disconcerting naiveté, could fail to recognize.”
In the opinion of Bassam Tibi, an academic
of Syrian origins who lives in Germany, Europeans
are facing a stark alternative: “Either Islam gets Europeanized,
or Europe gets Islamized.” Going still
farther, the eminent historian Bernard Lewis has
speculated that the clash may well be over by the end
of this century, at which time, if present demographic
trends continue, Europe itself will be Muslim.
Today’s situation has been a very long time—centuries—
in the making. For much of that time, of
course, the encounter between Muslims and the
West remained stacked in favor of the latter, both
militarily and culturally. Which is not to say that Europeans
of an earlier age were blind to the danger
posed to Western civilization by a resurgent Islam.
One watchful observer was Winston Churchill, who
wrote about Islam—or Mohammedanism as it was
then called—in The River War (1899):
No stronger retrograde force exists in the world.
Far from being moribund, Mohammedanism is
The Islamization of Europe?
David Pryce-Jones

a militant and proselytizing faith. It has already
spread throughout Central Africa, raising
fearless warriors at every step, and were it
not that Christianity is sheltered in the strong
arms of science . . . the civilization of modern
Europe might fall, as fell the civilization of ancient
Rome.
Hilaire Belloc had similar premonitions 30 years
later in The Great Heresies (1938):
Will not perhaps the temporal power of Islam
return and with it the menace of an armed
Muhammadan world which will shake the dominion
of Europeans—still nominally Christian—
and reappear again as the prime enemy of
our civilization? . . . Since we have here a very
great religion, physically paralyzed, but morally
intensely alive, we are in the presence of an unstable
equilibrium.
To these early observers, nevertheless, it did seem
that Western cultural and military superiority could
be counted on to prevail, at least for the foreseeable
future. (Belloc is better remembered for his boast,
“We have got the Gatling gun, and they have not.”)
And prevail it did throughout a good part of the 20th
century. In the last decades, however, another historical
process has been at work drastically revising the
calculus of power.
Contemporary Islamism might be summed
up as the effort to redress and reverse the
long-ago defeat of Muslim power by European (i.e.,
Christian) civilization. Toward that end, it has followed
two separate courses of action: adopting the
forms of nationalism that have appeared to many
Muslims to contain the secret of Western supremacy,
or promoting Islam itself as the one force capable
of uniting Muslims everywhere and hence
ensuring their renewed power and dominance. In
the hands of today’s Islamists, and with the complicity
of Europe itself, these two approaches have
proved mutually reinforcing.
In Europe, the world wars of the last century finally
undid and discredited the idea of the sovereign
nation-state, the engine of the continent’s preeminence
and self-confidence. In place of this tried and
tested political arrangement, now suddenly seen as
outmoded and dysfunctional, institutions like the European
Union and the United Nations were thought
to offer a firmer foundation for a new world order,
one that would be based on universal legal norms
and in which sovereign power would be rendered
superfluous. It has been the resulting decline of the
European nation-state that has helped provide a
unique opportunity for Islamism, itself based on a
world-wide, transnational community that has been
united by faith and custom since its inception and
that traditionally has drawn no distinction between
the realm of faith and the realm of temporal power.
A number of ideological movements have spread
and fortified the modern projection of transnational
Islam. Perhaps the most successful has been the Muslim
Brotherhood, founded by Hasan al-Banna in
Egypt in 1928, with branches today in some 40 to 50
countries. Yasir Arafat and Ayman al-Zawahiri,
Osama bin Laden’s deputy, are among those formed
by the Brotherhood. Its more recent inspiration derives
from the Egyptian-born Sayyid Qutb, whose
three-year stay in the United States in the late 1940’s
and early 1950’s convinced him that the West and
everything it stood for had to be rejected, while Islam
already provided every Muslim with state, nation, religion,
and identity all in one. Saudi Arabia has spent
billions of its petro-dollars financing groups, including
terrorist groups, that promote this idea.
The 1979 revolution led by Ayatollah Khomeini
in Iran was an opening test of the new balance of
forces between a rising transnational Islam and the
declining Western nation-state. European countries,
which in the postwar period seemed largely to have
lost the will to respond to aggressive challenges from
without, presented no opposition to the totalitarian
Khomeini regime and no barrier to its aggrandizement.
That left the United States, still a nation-state
very much committed to defending its sovereignty.
Indeed, to the ayatollahs and their allies, the U.S.
represented a final embodiment of the Great Satan,
fit to be confronted in holy war.
This remains the case today. In the meantime,
though, a battle of a different but no less decisive
kind has been taking place within Europe, where
some 20 million Muslims have settled. Thanks on
the one hand to their high birthrate, and on the other
hand to the sub-replacement birthrate that has become
the norm among other Europeans, the demographic
facts alone suggest a continent ripe for a
determined effort to advance the Islamist agenda.
In its global reach and in its aggressive intentions,
Islamist ideology bears some resemblance to another
transnational belief system: namely, Communism.
Like today’s Islamists, Communists of an earlier
age saw themselves as engaged in an apocalyptic
struggle in which every member of a Communist
party anywhere was expected to comport himself as
a frontline soldier, and in which terror was seen as a
wholly permissible means toward victory in a war to
the finish. Compare Stalin’s “If the enemy does not
[30]
Commentary December 2004

surrender he must be exterminated” with the refusal
of the leader of Hizballah in Lebanon to negotiate
with or ask concessions from the West because “We
seek to exterminate you.” To Sheik Omar Bakri
Muhammad, a Syrian with British citizenship who
until recently led a group called al-Muhajiroun, the
terrorists of September 11 were “The Magnificent
Nineteen”—or, as he explains, the advance guard of
an army of “our Muslim brothers from abroad [who]
will come one day and conquer here.”
Throughout the cold-war era, the European
democracies under threat from Soviet expansionism
were themselves home to Communist parties, as
well as to an array of front organizations ostensibly
devoted to peace and friendship and culture but in
reality manipulated by and for Soviet purposes. In
addition, many people from all walks of life accommodated
themselves to Communism with varying
degrees of emotional intensity and out of various
motives, including the wish to be on what they perceived
as the winning side and the converse fear of
winding up on the losing side.
Each of these elements, in suitably transmuted
form, is present today. The pool of local recruits
upon which Islamists draw is itself very large. Of Europe’s
20 million Muslims, it is estimated that 5 or 6
million live in France alone, at least 3 million in
Germany and 2 million in Britain, 1 million apiece
in Holland and Italy, and a half-million apiece in
Spain and Austria.
It is true that most Muslim immigrants to Europe
come simply with hopes for a better life, and that
these hopes are more important to them than any apprehensions
they might entertain about living in a society
ruled by non-Muslims—something historically
prohibited in Islam. Indeed, large numbers have assimilated
with greater or lesser strain, and, in the
manner of other minorities, have become “hyphenated”
as British-Muslim, French-Muslim, Italian-
Muslim, and the like. Religious life flourishes: if,
a half-century ago, there were but a handful of
mosques throughout Europe, today every leading
country has over a thousand, and France and Germany
each have somewhere between five and six
thousand. Muslim pressure groups, lobbies, and charities
operate effectively everywhere; in Britain alone
there are 350 Muslim bodies of one kind or another.
Among these various organizations, however, a
number function as Islamist fronts. Inspired by
Saudi Arabia or Khomeinist Iran, by the Muslim
Brotherhood or al Qaeda, they work to undermine
democracy in whatever ways they can, just as Soviet
front organizations once did. They push immigrants
to repudiate both the process and the very
idea of integration, challenging them as a matter of
religious belief and identity to take up an oppositional
stance to the societies in which they live. Issues
of Islamic concern have been skillfully magnified
into scandals in the attempt to foment animosity on
all sides and thus further deter or prevent the integration
of Muslims into mainstream European life.
The notorious 1989 fatwa condemning the novelist
Salman Rushdie to death for exercising his right
to free speech as a British citizen was an early example
of this tactic of disruption and agitation. Another
has been the attempt in Britain to set up a Muslim
“parliament” that will recognize only Islamic law
(shari’a) as binding, and not the law of the land. Still
another has been the insistence, in France, on the
wearing of the hijab by girls in public schools, a practice
that clearly contradicts the ideals of French
republicanism and is in any case not an Islamic requirement.
The tactical thinking behind such incitements
was well articulated by an al-Qaeda leader
who, calling upon British Muslims to “bring the
West to its knees,” added that they, “the locals, and
not foreigners,” have the advantage since they understand
“the language, culture, area, and common
practices of the enemy whom they coexist among.”
Still another phenomenon familiar from the
Soviet era has lately made a repeat appearance
in the West, and that is voluntary accommodation, or
fellow-traveling, among non-Muslims. Leftist fellowtravelers
once helped to create a climate of opinion
favorable to Communism. Many knew exactly what
they were doing. Others merely meant well; they
were what Lenin called “useful idiots.” In like manner,
Islamist fellow-travelers and useful idiots are
weaving a climate of opinion today that advances the
purposes of radical Islam and is deeply damaging to
the prospects of reconciliation.
As in the 30’s and throughout the cold war, intellectuals
and journalists are in the lead. Books pour
from the presses to justify everything and anything
Muslims have done in the past and are doing in the
present. Just as every Soviet aggression was once defined
as an act of self-defense against the warmongering
West, today terrorists of al Qaeda, or the
Chechen terrorists who killed children in the town
of Beslan, are described in the media as militants, activists,
separatists, armed groups, guerrillas—in short,
as anything but terrorists. Dozens of apologists pretend
that there is no connection between the religion
of Islam and those who practice terror in its name, or
suggest that Western leaders are no better or are indeed
worse than Islamist murderers. Thus Karen
Armstrong, the well-known historian of religion: “It’s
[31]
The Islamization of Europe?

very difficult sometimes to distinguish between Mr.
Bush and Mr. bin Laden.”
One form of Islamist fellow-traveling masquerades
as a call for “tolerance,” or “diversity,” and has penetrated
right through the world of European opinion
and European institutions. The British Communist
historian Christopher Hill once concluded a book on
Lenin with a reverent recital of the epithets the party
had devised to glorify him. Pious Muslims follow the
mention of the Prophet Muhammad with the invocation,
“Peace be upon him.” This practice has now
crept into a biography of the Prophet written by a
British writer not ostensibly a Muslim. To encourage
such acts of deference, there has been a complementary
effort to stifle contrary or less than fully respectful
opinions. When the outspoken French novelist
Michel Houellebecq pronounced Islam to be hateful,
stupid, and dangerous, Muslim organizations and the
League for the Rights of Man took him to court, just
as the Italian writer Oriana Fallaci was sued for her
book tying the 9/11 attacks to the teachings of Islam.
Although both writers won their cases, the chilling
effect was unmistakable.
The institutions that have been affected by Islamophile
correctness run the gamut. In Britain, a
judge has agreed to prohibit Hindus and Jews from
sitting on a jury in the trial of a Muslim. The British
Commission for Racial Equality has ordained that
businesses must provide prayer rooms for Muslims
and pay them for their absences on religious holidays.
In a town in the Midlands, a proposal to renovate
a hundred-year-old statue of a pig was rejected
for fear of giving offense to Muslims. The
British Council, an international organization for
cultural relations, fired a staff member who published
articles in the Sunday Telegraph arguing that
the roots of terror and jihad were nourished in the
soil of Islam, while the BBC canceled the contract
of a popular television journalist for allegedly using
negative language to describe the Muslim Arab
contribution to mankind.
Commercial society has likewise rushed to accommodate
real or imagined Muslim sensibilities: a
British bank boasts that it will comply with shari’a
prohibitions on the uses of money, and the German
state of Saxony-Anhalt has become the first European
body to issue a sukuk, or Islamic bond. Religious
society is not far behind: even as bin Laden speaks of
wresting Spain (“al-Andalus”) from the infidels by violence,
the cathedral of Santiago has considered removing
a statue of St. James Matamoros (“the Moor
slayer”), lest it give offense to Muslims. For the same
reason, the municipality of Seville has removed King
Ferdinand III, hitherto the city’s patron saint, from
fiesta celebrations because he fought the Moors for
27 years. In Italy, where Islamists have threatened to
destroy the cathedral of Bologna because of a fresco
illustrating the Prophet Muhammad in the inferno
(where Dante placed him), thought has been given to
deleting the art-work from the walls. Even the Pope
has apologized for the Crusades. In secular Denmark,
the Qur’an (but not the Bible) is now required
reading for high-school students. And so forth.
The lengths to which apologists for Islamism
are prepared to go is nicely illustrated by the
case of Tariq Ramadan, a professor of Islamic studies
at the University of Fribourg in Switzerland and a
popular writer and speaker. As is well known, the
American university Notre Dame recently offered
Ramadan a professorship, but U.S. immigration authorities
have so far rejected his application for a visa.
This has elicited some classic examples of fellow-traveling
obfuscation from both Americans and Europeans
outraged on his behalf. A letter to the Washington
Post protesting Ramadan’s treatment undertook to
explicate his supposed message to Western Muslims:
they “must find common values and build with fellow
citizens a society based on diversity and equality.”
Not quite. What Tariq Ramadan has really proposed
in his writings and teachings is that Muslims
in the West should conduct themselves not as hyphenated
citizens seeking to live by “common values”
but as though they were already in a Muslim-majority
society and exempt on that account from having
to make concessions to the faith of others. What Ramadan
advocates is a kind of reverse imperialism. In
his conception, Muslims in non-Muslim countries
should feel themselves entitled to live on their own
terms—while, under the terms of Western liberal
tolerance, society as a whole should feel obliged to
respect that choice.
Ramadan happens to be a grandson of Hasan al-
Banna, founder of the Muslim Brotherhood, but he
is also a guarded writer. In fact, his is a relatively
“moderate” and qualified expression of Islamic reverse
imperialism. More overtly, and with an implicit
threat of violence, Dyab Abu Jahjah, a Lebanese
who has settled in Antwerp, has denounced the
Western ideal of assimilation as “cultural rape,” and
aims to bring all the Muslims of Europe into a single
independent community. He, too, needless to say,
has his defenders and apologists among European
liberals.
Or consider the European reception of Yusuf al-
Qaradawi, heir to Sayyid Qutb as the religious authority
of the Muslim Brotherhood. Wanted on
charges of terrorism in his native Egypt, al-Qaradawi
[32]
Commentary December 2004

now lives in Qatar. Like Tariq Ramadan in Switzerland,
he emphasizes that Muslims must keep apart
from liberal democracy as it is practiced in the West
while also availing themselves of its benefits and advantages.
But he goes much further. Unlike Ramadan,
he approves of wife-beating in the forms
sanctioned by the Qur’an; as for homosexuals, he is
agnostic on whether they should be thrown off a
high cliff or flogged to death. Yet this year, in an official
ceremony at London’s City Hall, al-Qaradawi
was welcomed as “an Islamic scholar held in great respect”
by the mayor of London, Ken Livingstone.
“You are truly, truly welcome,” gushed Livingstone,
an otherwise enthusiastic supporter of gay pride.
Also appearing this year in London was Sheik
Abdul Rahman al-Sudayyis, a senior imam of the
Grand Mosque in Mecca; among his many distinctions,
al-Sudayyis has vituperated Jews as “the scum
of the human race, the rats of the world, the violators
of pacts and agreements, the murderers of the
prophets, and the offspring of apes and pigs.” Standing
beside this apostle of “diversity and equality” was
a junior minister in the Blair government.
The Islamic Foundation, one of Britain’s numerous
Muslim bodies, has an offshoot called the Markfield
Institute. In July, the London Times linked both the
foundation and the institute to terrorism. An offended
reader with an English name wrote to protest: “I
hope that Markfield . . . will be allowed to help individual
Muslims to practice their faith with peace and
respect, in a multicultural Britain.” Another reader, an
Anglican canon in the Diocese of Leicester (a city
with a Muslim majority today), asserted that the institute
was simply trying to teach imams and Muslim
youngsters alike to work within British institutions.
In just that spirit, and even in that vocabulary, the
fellow-traveling Beatrice Webb used to advance the
transcendent virtues of the Soviet social model.
Gullible, false, and dangerous statements of this kind
are now as common as rain.
In the realm of classical Islam, Christians and
Jews once lived as dhimmis—that is to say, minorities
with second-class rights, tolerated but discriminated
against by law and custom. Many contemporary
Muslims appear to idealize this longlost
supremacy over others, and aspire to reconstruct
it. One way to work for this end is through
violence and terror. Another way, the way of Tariq
Ramadan and Yusuf al-Qaradawi, is through words.
One way and another, the project is advancing.
Summing up the collective achievement so far, Bat
Ye’or, the historian of “dhimmitude,” has written
that “Europe has evolved from a Judeo-Christian
[33]
The Islamization of Europe?
civilization with important post-Enlightenment/
secular elements to . . . a secular Muslim transitional
society with its traditional Judeo-Christian
mores rapidly disappearing.” She calls this evolving
entity “Eurabia.”
If that is the case, or is becoming the case, is it any
wonder that some Europeans are switching sides, so
as to be on the winning one? The sheer élan and cultural
confidence displayed by Islamist spokesmen
may have something to do with the fact that every
year, thousands of people all over Europe convert to
Islam. Some of these converts, from Britain, France,
and Germany, taking the direct route from words to
action, have gone on to play a disproportionate role
in terrorism and Islamist militancy. Thus, at a rally
organized in London last year by a radical offshoot
of the Muslim Brotherhood, a high proportion of
demonstrators were clearly not of Middle Eastern
origin. At a recent trial in Cairo in which three
British citizens were condemned to prison for subversion
and intended terrorism, two were Englishborn,
with English names. They were led away
shouting defiance of the West.
There are certainly Muslims in Europe who look
with horror upon what is being done in their name,
and who wish to have nothing to do with the notion
that they are entitled to live in the West as, in effect,
conquerors. For wholly understandable reasons, few
of them have the courage to speak out. One of the
exceptional few recently wrote a letter to the London
Times, giving his name and address, and saying that
he defines his community as the people with whom
he chooses to interact. He went on: “We do not all
subscribe to the same way of being a Muslim, neither
do we push our beliefs into the civic and political
sphere.” But, he continued, “Sadly the public does
not always get our point of view, because the only
Muslims who are consulted are those who choose to
drag Islam into the political sphere.”
One could not ask for a clearer repudiation not
only of all Muslim Brotherhood-style proselytizers
but, even more bitingly, of the patronizing and indulgent
attitude adopted toward them by the European
establishment. Those in Europe who have striven
in ways great and small to extend special privileges
to Muslims while subtly deprecating their own national
identity and culture have indeed helped open
the way to Islamic separatism and Islamist agitation.
They have thereby hastened the very clash of civilizations
that they (or some of them) foolishly claim
they are avoiding. If Bassam Tibi is correct in stating
that “either Islam gets Europeanized or Europe gets
Islamized,” powerful forces are at work to foreclose
the question.