Thursday, March 03, 2005

[Primavera di Beirut] La rivoluzione libanese non cede sul ritiro siriano

La rivoluzione libanese
modera la piazza, ma non
cede sul ritiro della Siria

La strategia dell’opposizione è sostenuta
da Bush e Chirac: “Via le truppe
di Damasco, poi la democrazia”

“Che bello il voto in Iraq”

Il Foglio, 3 marzo 2005, pag 1
di Rolla Scolari

Beirut. E’ arrivato il tempo di negoziare.
L’opposizione libanese ha deciso ieri la
sua strategia: la piazza di Beirut si svuota
un po’, le mire politiche non s’abbassano.
I capi che finora hanno guidato la protesta
si sono ritrovati nel feudo del leader druso,
Walid Jumblatt, tra le montagne dello
Chouf, ancora un poco innevate, nella sua
casa privata. Qui, tra gli ulivi e le case ottomane
dai tetti di tegole rosse, nell’antico
palazzo di pietra della famiglia Jumblatt,
l’opposizione ha deciso di andare alla
trattativa: meno piazza, massimo obiettivo,
“il ritiro completo delle truppe siriane”.
Appena prima che l’opposizione
uscisse dalla casa di Jumblatt, il presidente
americano George W. Bush, aveva
usato le stesse parole, in accordo
anche con Parigi: “Diciamo
chiaro e tondo alla Siria:
‘Ritira le tue truppe e i
tuoi servizi segreti dal Libano,
così la buona democrazia
ha la possibilità di
fiorire’”.
Nelle ore precedenti il vertice
a casa di Jumblatt, sembrava
che l’opposizione avesse intenzione
di smorzare i toni: il druso
aveva già chiesto giorni fa ai
suoi sostenitori in piazza di non
essere troppo aggressivi contro
la Siria e aveva anche parlato
di “ritiro parziale”
delle truppe siriane dal
Libano, mentre il presidente
di Damasco, Bashar
al Assad, diceva di essere pronto a iniziare
il disimpegno questo mese, per portarlo
a termine nel giro di sei. Poi la logica
del negoziato ha prevalso e non sono stati
ammessi sconti al risultato politico da raggiungere,
ribadendo comunque il desiderio
di mantenere un buon rapporto, “la
partnership”, con la Siria.
“Il prossimo passo – spiega al Foglio la
pasionaria della piazza dei Martiri, Nayla
Moawada, la sciarpa rosso-bianca dei manifestanti
al collo, insieme con un filo di
perle – è un nuovo governo che avrà un
compito preciso: quello di scoprire chi ha
ucciso Rafiq Hariri. Non ci fidiamo della
giustizia libanese. Vogliamo elezioni libere
e giuste, sotto monitoraggio internazionale.
Vogliamo una partnership con la Siria,
vogliamo riequilibrare le relazioni con
Damasco. Vogliamo un Libano libero, indipendente,
democratico. Il Libano ha
sempre avuto una tradizione democratica,
d’altronde”. La domanda è se tutto questo
sia realistico. “E’ realistico quello che avete
visto in piazza dei Martiri?”, dice ridendo
Moawada. Beirut è tappezzata di foto di
Hariri “il martire”, questo è realistico. A
Mokhtara, nel territorio dei drusi – dove
tutti indossano i tipici pantaloni bianchi
larghi con il cavallo a metà gamba e il cappellino
anch’esso bianco – i negozi hanno
appeso l’immagine dell’ex premier accanto
a quella di Kemal Jumblatt, padre di
Walid, ucciso durante la guerra. “Prima
delle elezioni irachene ci sono state quelle
palestinesi – continua Moawada – che
hanno fatto nascere un sentimento di legalità
e di speranza per la risoluzione del
conflitto. Le elezioni in Iraq sono state uno
spettacolo senza precedenti”.
La lezione appresa a Kiev
L’opposizione libanese ha scelto quindi
una strategia senza concessioni, come racconta
al Foglio Marwan Hamadé, l’anziano
ex ministro dimissionario ai tempi dell’emendamento
costituzionale che ha permesso
al presidente filosiriano Emile
Lahud di rimanere in carica e obiettivo di
un attentato fallito: “Rimaniamo fermi sulle
nostre posizioni. Chiediamo la dimissione
dei capi dell’intelligence, elezioni libere
e il ritiro completo delle truppe siriane”.
Fuori dalla casa di Jumblatt, dopo
un pomeriggio di discussioni, la voce dell’opposizione
è concorde. Dalla piazza della
rivoluzione “orange”, infatti, i leader
della protesta libanese hanno compreso
l’importanza di rimanere uniti. Per questo
le dichiarazioni e le richieste sono condivise
da tutti, il fronte compatto e determinato,
attento ai convenevoli diplomatici
come alle pressioni della comunità internazionale,
Washington e Parigi insieme.
I manifestanti in bianco e rosso hanno
imparato anche un’altra lezione, grazie all’esperienza
di Kiev: il pubblico internazionale
è pronto ad appoggiare un clima
simile in qualsiasi parte del mondo. E’
uno degli effetti del “contagio democratico”,
che colora le piazze. Per questo anche
in Libano è stato facile approfittare della
copertura dei mass media internazionali.
Ricorda il quotidiano libanese Daily Star,
che “democrazia” è la “password” nella
mente degli occidentali, insieme con il termine
“pacifica” abbinato a “manifestazione”.
Ora che anche l’opinione pubblica internazionale
è mobilitata “psicologicamente”
contro la Siria, l’opposizione può
giocare le sue carte.

pagina) La strategia dell’opposizione
guidata da Walid Jumblatt è
chiara e gli obiettivi politici restano immutati.
La protesta però non deve scappare
di mano, il vuoto di potere creato dalle
dimissioni del premier filosiriano Omar
Karame non deve diventare il pretesto
per applicare la legge di emergenza. Meglio
governare la transizione.
Ieri il centro di Beirut era immerso in
una normale giornata lavorativa, anche se
tutte le vetrine dei negozi espongono
l’immmagine dell’ex premier Rafiq Hariri,
che compare anche sui vetri posteriori
di molte auto, sui balconi, sui pali della
luce, sulle spille appuntate alle giacche
dei membri dell’opposizione. Tra le richieste
dell’opposizione c’è n’è stata anche
una specifica per l’attentato: l’apertura
di un’inchiesta che faccia chiarezza sulla
morte di Hariri.
La piazza dei Martiri ieri era presidiata
da un piccolo manipolo di ragazzi che
hanno trasformato la base della statua posta
nel centro in un quartier generale colorato
di tende. Alla tomba di Hariri continua
il pellegrinaggio.
E’ il momento della trattativa per un governo
di transizione che Jumblatt vuole
garante della “neutralità” in vista delle
elezioni di maggio. Figura centrale di questi
negoziati potrebbe rivelarsi il portavoce
del Parlamento, lo sciita Nabih Berry,
capo di Amal e trait d’union tra opposizione,
governo e Hezbollah. Il partito di
Dio potrebbe essere l’ago della bilancia, e
allo stesso tempo la principale minaccia,
in questa trattativa e sia l’opposizione sia
le forze governative cercano di attirarsi i
favori del leader Hassan Nasrallah.
Nei caffé di Beirut si fanno ipotesi sul
prossimo premier. Circola il nome, più
con speranza che con convinzione, di
Bahia Hariri, sorella dell’ex primo ministro
e, mentre già si parla di lei come della
Yulia Timoshenko del Levante, i figli di
Hariri, Bahaa e Salaeddine – scrive al Ahram
– sono volati in gran segreto al Cairo
per ulteriori mediazioni.
Rolla Scolari

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