[Primavera di Beirut] Un tiranno messo all'angolo
Il Foglio, 4 marzo 2005, pag 1
Assad jr s’ispira ad Assad sr e corre dai tradizionali alleati arabi.Ma si
ritrova solo.Ora perfino i Saud, con Mosca e Berlino, chiedono il ritiro
siriano dal Libano.Lotta tra poteri a Damasco, trattative a Beirut
Roma. Il rais di Damasco è sempre più
solo. Il Washington Post titola: “Un tiranno
messo all’angolo”, sotto pressione americana,
europea, russa, perfino saudita. La
decisione del giovane Bashar al Assad di
annullare tutte le sue visite all’estero per
recarsi urgentemente a Riad è una scelta
fatta nel solco della più consolidata tradizione,
che dimostra come sfugga al rais la
dinamica nuova dello scenario libanese e
non solo, che ha al centro un’intensa mobilitazione
popolare e si sviluppa in un
quadro mediorientale terremotato dalla
caduta di Saddam Hussein in Iraq e dalla
morte di Yasser Arafat.
La pressione internazionale attorno a Damasco
– perché le truppe siriane lascino il
Libano come previsto dai vecchi accordi
mai attuati e dalla recente risoluzione dell’Onu
– cresce: alle nette prese di posizione
di Washington, di Londra e di Parigi si sono
aggiunte ieri le analoghe richieste della
Russia e della Germania. Il ministro degli
Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, ha detto alla
Bbc che la Siria deve ritirarsi dal Libano,
ma che bisogna fare in modo che il ritiro
non pregiudichi il fragile equilibrio del
paese dei cedri. La svolta di Mosca è significativa,
perché la Russia è un alleato storico
della Siria (con cui ha appena raggiunto
un accordo per la fornitura di missili) e si
era astenuta al Palazzo di vetro nella votazione,
lo scorso settembre, della risoluzione
1.559, voluta da Stati Uniti e Francia, che
impone a Damasco il ritiro dei soldati dal
Libano e a Beirut il disarmo delle milizie
Hezbollah. Anche il cancelliere tedesco,
Gerhard Schröder, ieri in visita nel Golfo,
ha detto che “deve essere data al Libano
un’opportunità per la sovranità e lo sviluppo,
e questi obiettivi possono essere perseguiti
attraverso l’attuazione delle risoluzioni
del Consiglio di sicurezza che sanciscono
l’immediato ritiro siriano dal Libano”. Come
ha detto un commentatore saudita,
Mohammad al Harfy, “la Siria è sotto forte
pressione da tutte le parti in questo momento.
Assad spera di ottenere il sostegno
del suo alleato, l’Arabia Saudita, in questo
momento difficile”. Speranza almeno per
ora mal riposta: secondo l’Associated press,
anche la corte saudita chiede a Bashar un
completo ritiro dal Libano, e “presto”, pena
un peggioramento delle relazioni con Riad.
Linea dura pure dagli alleati, dunque. Cioè
il giovane rais agisce come ha sempre fatto
suo padre, ma molto è cambiato e sta cambiando
nella regione.
Bashar è convinto che la situazione di
Beirut si possa e si debba mediare con i governi
arabi, ognuno dei quali ha forti terminali
libanesi (lo stesso ex premier ucciso,
Rafiq Hariri, aveva legami molto stretti
con la corte saudita). Crede che si possa ribaltare
o contenere in questo modo la
pressione internazionale. Confida nel fatto
che alla fine le manifestazioni termineranno
perché i vari padrini arabi dei partiti
libanesi daranno questo ordine. Probabilmente
tenta anche di offrire, attraverso
i sauditi, la riapertura di una trattativa con
Israele (come scrive il Jerusalem Post) per
ottenere un mutamento della posizione
americana e francese. Per ora i fatti gli
danno torto.
La feroce ideologia del Baath
In questa prospettiva Assad ha anche inviato
il viceministro degli Esteri, Walid al
Moallem, a Mosca per valutare più da vicino
la svolta della Russia sulla questione
libanese e ha ottenuto dalla Lega araba
una disponibilità alla mediazione “tra paesi
arabi” e senza “alcuna interferenza straniera”.
Sembra di leggere un bollettino diplomatico
di venti, trent’anni fa. Ma questa
incapacità della Siria e di Bashar al Assad
di cogliere la nuova dinamica della mobilitazione
popolare in Libano, innescata
dalla straordinaria serie di elezioni libere
in Afghanistan, in Palestina e in Iraq è proprio
l’elemento più preoccupante della situazione
nel paese dei cedri. Perché evidenzia
la straordinaria crisi interna di Damasco
che dilania il suo gruppo dirigente
baathista e che con tutta evidenza il giovane
Assad non sa dominare.
Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno
infatti costretto i due schieramenti interni
al Baath siriano, i riformisti e la “vecchia
guardia”, ad accentuare le proprie posizioni
e hanno visto Bashar al Assad, incapace
di governare le tensioni, cambiare ogni sei
mesi il governo o i ministri, allontanare dalla
scena, ma non dai giochi che contano,
perfino il potentissimo responsabile della
Difesa Mustafa Tlass, e arroccarsi nella famiglia.
Soprattutto dopo che i “duri” si sono
di fatto rafforzati manovrando, con notevoli
risultati, le forze baathiste terroriste in Iraq,
prive ormai della direzione di Saddam (che
peraltro il Baath siriano ha sempre odiato).
Mai come oggi i baathisti “rivoluzionari”
possono dire di essere protagonisti nel
Golfo. Protagonisti di terrore, ma pur sempre
in prima linea.
A fronte di queste tensioni che non riesce
a dominare, Bashar si è “rinchiuso”
nel fortino della sua trojka di governo,
composta da suo fratello Maher, dal marito
di sua sorella Assaf Shawkat (cui ha
appena assegnato la direzione dei Servizi
segreti, cioè del vero potere) e dal suo
amico Bahjat Suleyman. Questa struttura
di potere soltanto a prima vista ricorda
quelle sovietiche e serve a enfatizzare l’origine
laica del Baath, ma in realtà si regge
su una gerarchia religiosa, perché il
regime siriano è in mano alla piccola setta
sciita degli alauiti, dai riti misteriosi,
di cui appunto Bashar è l’emiro. Si ha così
una smentita piena di tutte le analisi
dei media politicamente corretti sul ruolo
che il baathismo laico avrebbe nel
mondo arabo per arginare il fondamentalismo
musulmano. Perché il vero punto
di crisi interna per la Siria è proprio l’ideologia
del Baath. Il regime di Damasco,
come tutti i sistemi dittatoriali arabi, non
è retto soltanto da una cricca corrotta di
despoti, ma ha anche un forte collante
ideologico, che si esprime in un’ideologia,
quella del Baath, internazionalista
araba, che considera il Libano parte integrante
della Siria. Tanto che il regime
di Damasco occupa il paese dei cedri, ma
non ha relazioni diplomatiche con Beirut
perché non ne riconosce la struttura territoriale.
Il Baath inoltre considera come
una sua missione la distruzione di Israele.
A fronte delle timide spinte riformiste
dei deboli tecnocrati che ricordano che
l’economia del paese sta andando allo
sbando e che il crollo del regime di Saddam
rischia di essere esiziale, la “vecchia
guardia” indurisce le proprie posizioni.
E’ un gruppo di gerarchi formatosi
con il padre, che controlla tutte le Forze
armate, che ha come leader il vicepresidente
Abdul Kalim Khaddam e l’ex ministro
della Difesa Tlass, e che vede un
eventuale ritiro del contingente siriano
dalla valle della Bekaa come un tradimento
della patria.
E’ la vecchia guardia che non vuole le
riforme, non vuole la pace con Israele,
preferisce rischiare la fine di Saddam
piuttosto che modificare il regime. E’ composta
da una generazione di gerarchi che
ha un solo rapporto con la folla che manifesta:
le spara contro, come ha fatto anche
nel marzo 2004 nel Kurdistan siriano.
Assad jr s’ispira ad Assad sr e corre dai tradizionali alleati arabi.Ma si
ritrova solo.Ora perfino i Saud, con Mosca e Berlino, chiedono il ritiro
siriano dal Libano.Lotta tra poteri a Damasco, trattative a Beirut
Roma. Il rais di Damasco è sempre più
solo. Il Washington Post titola: “Un tiranno
messo all’angolo”, sotto pressione americana,
europea, russa, perfino saudita. La
decisione del giovane Bashar al Assad di
annullare tutte le sue visite all’estero per
recarsi urgentemente a Riad è una scelta
fatta nel solco della più consolidata tradizione,
che dimostra come sfugga al rais la
dinamica nuova dello scenario libanese e
non solo, che ha al centro un’intensa mobilitazione
popolare e si sviluppa in un
quadro mediorientale terremotato dalla
caduta di Saddam Hussein in Iraq e dalla
morte di Yasser Arafat.
La pressione internazionale attorno a Damasco
– perché le truppe siriane lascino il
Libano come previsto dai vecchi accordi
mai attuati e dalla recente risoluzione dell’Onu
– cresce: alle nette prese di posizione
di Washington, di Londra e di Parigi si sono
aggiunte ieri le analoghe richieste della
Russia e della Germania. Il ministro degli
Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, ha detto alla
Bbc che la Siria deve ritirarsi dal Libano,
ma che bisogna fare in modo che il ritiro
non pregiudichi il fragile equilibrio del
paese dei cedri. La svolta di Mosca è significativa,
perché la Russia è un alleato storico
della Siria (con cui ha appena raggiunto
un accordo per la fornitura di missili) e si
era astenuta al Palazzo di vetro nella votazione,
lo scorso settembre, della risoluzione
1.559, voluta da Stati Uniti e Francia, che
impone a Damasco il ritiro dei soldati dal
Libano e a Beirut il disarmo delle milizie
Hezbollah. Anche il cancelliere tedesco,
Gerhard Schröder, ieri in visita nel Golfo,
ha detto che “deve essere data al Libano
un’opportunità per la sovranità e lo sviluppo,
e questi obiettivi possono essere perseguiti
attraverso l’attuazione delle risoluzioni
del Consiglio di sicurezza che sanciscono
l’immediato ritiro siriano dal Libano”. Come
ha detto un commentatore saudita,
Mohammad al Harfy, “la Siria è sotto forte
pressione da tutte le parti in questo momento.
Assad spera di ottenere il sostegno
del suo alleato, l’Arabia Saudita, in questo
momento difficile”. Speranza almeno per
ora mal riposta: secondo l’Associated press,
anche la corte saudita chiede a Bashar un
completo ritiro dal Libano, e “presto”, pena
un peggioramento delle relazioni con Riad.
Linea dura pure dagli alleati, dunque. Cioè
il giovane rais agisce come ha sempre fatto
suo padre, ma molto è cambiato e sta cambiando
nella regione.
Bashar è convinto che la situazione di
Beirut si possa e si debba mediare con i governi
arabi, ognuno dei quali ha forti terminali
libanesi (lo stesso ex premier ucciso,
Rafiq Hariri, aveva legami molto stretti
con la corte saudita). Crede che si possa ribaltare
o contenere in questo modo la
pressione internazionale. Confida nel fatto
che alla fine le manifestazioni termineranno
perché i vari padrini arabi dei partiti
libanesi daranno questo ordine. Probabilmente
tenta anche di offrire, attraverso
i sauditi, la riapertura di una trattativa con
Israele (come scrive il Jerusalem Post) per
ottenere un mutamento della posizione
americana e francese. Per ora i fatti gli
danno torto.
La feroce ideologia del Baath
In questa prospettiva Assad ha anche inviato
il viceministro degli Esteri, Walid al
Moallem, a Mosca per valutare più da vicino
la svolta della Russia sulla questione
libanese e ha ottenuto dalla Lega araba
una disponibilità alla mediazione “tra paesi
arabi” e senza “alcuna interferenza straniera”.
Sembra di leggere un bollettino diplomatico
di venti, trent’anni fa. Ma questa
incapacità della Siria e di Bashar al Assad
di cogliere la nuova dinamica della mobilitazione
popolare in Libano, innescata
dalla straordinaria serie di elezioni libere
in Afghanistan, in Palestina e in Iraq è proprio
l’elemento più preoccupante della situazione
nel paese dei cedri. Perché evidenzia
la straordinaria crisi interna di Damasco
che dilania il suo gruppo dirigente
baathista e che con tutta evidenza il giovane
Assad non sa dominare.
Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno
infatti costretto i due schieramenti interni
al Baath siriano, i riformisti e la “vecchia
guardia”, ad accentuare le proprie posizioni
e hanno visto Bashar al Assad, incapace
di governare le tensioni, cambiare ogni sei
mesi il governo o i ministri, allontanare dalla
scena, ma non dai giochi che contano,
perfino il potentissimo responsabile della
Difesa Mustafa Tlass, e arroccarsi nella famiglia.
Soprattutto dopo che i “duri” si sono
di fatto rafforzati manovrando, con notevoli
risultati, le forze baathiste terroriste in Iraq,
prive ormai della direzione di Saddam (che
peraltro il Baath siriano ha sempre odiato).
Mai come oggi i baathisti “rivoluzionari”
possono dire di essere protagonisti nel
Golfo. Protagonisti di terrore, ma pur sempre
in prima linea.
A fronte di queste tensioni che non riesce
a dominare, Bashar si è “rinchiuso”
nel fortino della sua trojka di governo,
composta da suo fratello Maher, dal marito
di sua sorella Assaf Shawkat (cui ha
appena assegnato la direzione dei Servizi
segreti, cioè del vero potere) e dal suo
amico Bahjat Suleyman. Questa struttura
di potere soltanto a prima vista ricorda
quelle sovietiche e serve a enfatizzare l’origine
laica del Baath, ma in realtà si regge
su una gerarchia religiosa, perché il
regime siriano è in mano alla piccola setta
sciita degli alauiti, dai riti misteriosi,
di cui appunto Bashar è l’emiro. Si ha così
una smentita piena di tutte le analisi
dei media politicamente corretti sul ruolo
che il baathismo laico avrebbe nel
mondo arabo per arginare il fondamentalismo
musulmano. Perché il vero punto
di crisi interna per la Siria è proprio l’ideologia
del Baath. Il regime di Damasco,
come tutti i sistemi dittatoriali arabi, non
è retto soltanto da una cricca corrotta di
despoti, ma ha anche un forte collante
ideologico, che si esprime in un’ideologia,
quella del Baath, internazionalista
araba, che considera il Libano parte integrante
della Siria. Tanto che il regime
di Damasco occupa il paese dei cedri, ma
non ha relazioni diplomatiche con Beirut
perché non ne riconosce la struttura territoriale.
Il Baath inoltre considera come
una sua missione la distruzione di Israele.
A fronte delle timide spinte riformiste
dei deboli tecnocrati che ricordano che
l’economia del paese sta andando allo
sbando e che il crollo del regime di Saddam
rischia di essere esiziale, la “vecchia
guardia” indurisce le proprie posizioni.
E’ un gruppo di gerarchi formatosi
con il padre, che controlla tutte le Forze
armate, che ha come leader il vicepresidente
Abdul Kalim Khaddam e l’ex ministro
della Difesa Tlass, e che vede un
eventuale ritiro del contingente siriano
dalla valle della Bekaa come un tradimento
della patria.
E’ la vecchia guardia che non vuole le
riforme, non vuole la pace con Israele,
preferisce rischiare la fine di Saddam
piuttosto che modificare il regime. E’ composta
da una generazione di gerarchi che
ha un solo rapporto con la folla che manifesta:
le spara contro, come ha fatto anche
nel marzo 2004 nel Kurdistan siriano.
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