Times New RomanSigmund Ginzberg
su "La Montagna Incantata"
Il Foglio
Nel grande romanzo di Thomas Mann la metafora della sua vecchiaia e
della sua “simpatia con la morte”
Leggiamo sui giornali che entro fine novembre chiude, dopo 140 anni di
attività, il sanatorio di Davos che aveva ispirato “La montagna
incantata”. Dicono che era proprio quello, il Valbella, con la sua
cupola zincata, e la facciata balconata che si rivolge verso
fondovalle, quella su cui si stendevano i tisici a respirare, avvolti
dalle coperte, l’aria fresca, anche se nel romanzo si chiama con un
altro nome: Berghof. Ma avrebbe potuto essere un altro: a quell’epoca
a Davos di sanatori per malati di tubercolosi ce n’erano almeno una
trentina. Quello in cui Thomas Mann aveva trascorso tre settimane nel
1912 in visita alla moglie Katia, affetta da una forma lieve, si
chiamava Waldsanatorium, e da tempo è stato trasformato in hotel, che
ospita sciatori d’inverno, vacanzieri d’estate, e gli ospiti del
famoso Forum della globalizzazione economica nella stagione morta. In
sé non è una grande notizia. Ma riesce a emozionare ugualmente, carica
com’è di simbolismi degni di uno dei romanzi dichiaratamente più
carichi di metafore e simboli, molteplici possibili letture, della
letteratura moderna. Da tempo non c’è più la tubercolosi classica, che
nell’Europa di inizi ’900 superava come causa di morte il cancro e le
malattie cardiovascolari (salvo l’emergere recente di nuovi ceppi
insensibili agli antibiotici). C’è l’Aids, ma costa troppo curarsela
in Svizzera. E comunque pare che i trattamenti in alta montagna gli
facessero più male che bene. Neanche la Svizzera è quella di una
volta. Ma ancora una volta, come quasi un secolo fa, si respira
nell’aria del vecchio continente una sensazione di smarrimento, un
odore di decadenza e sfacimento, l’impressione che un’epoca si sia
chiusa, un intero modo di vita cui ci eravamo abituati nei decenni
scorsi stia tramontando – così come il romanzo di Mann voleva essere
il “canto del cigno” della Belle époque – mentre si affollano
interrogativi senza risposta su cosa c’è da aspettarsi al suo posto.
L’Europa ricomincia a sentirsi un po’ come i pazienti che venivano
invitati a fermarsi in sanatorio per qualche settimana, e poi
finiscono per restarci anni, e ci muoiono. La guarigione economica,
tante volte preannunciata, data per imminente, o almeno predetta come
inevitabile, non si vede. Il Valbella, leggiamo, era gestito con
capitali tedeschi, ed è proprio la Germania la maggiore delusione. Il
“sorpasso” dell’America è rinviato sine die. Così come gli “Stati
uniti d’Europa”. Comincia a non fidarsi dei suoi dottori. Ma non
saprebbe a chi altro rivolgersi. Arranca nei suoi dubbi. La sua storia
dovrebbe averla vaccinata contro stregoni, profeti e fanatici,
“salvatori dell’umanità” compresi. E’ ragionevole ritenere che non si
trovi sull’orlo di una catastrofe come fu la Prima guerra mondiale
(con le sue lunghe propaggini nella Seconda). Non percepisce il
terrorismo come una minaccia mortale. Forse non si sta accorgendo di
invecchiare, o non se ne preoccupa quanto dovrebbe (c’è ancora tempo
perché ognuno in età lavorativa debba sostentare due pensionati). Tira
avanti, ipnotizzata dal tran tran. Annoiata, quasi rassegnata. Con una
sensazione di malessere percepibile, ma non apocalittico. “Metafora
della malattia”, è stato definito il romanzo di Thomas Mann. “Danza
macabra in un hotel di lusso”, ha detto qualcun altro. Radiografia di
un’epoca in disfacimento, quella del primo anteguerra europeo, ammise
l’autore. Con rimpianto struggente, ma anche una punta di necrofilia.
Morbosa quanto il pegno erotico che si scambiano il protagonista e la
donna amata: una radiografia del torace, senza testa, che mostra gli
organi come ombre, quasi fossero già in disfacimento. Una
rappresentazione incantata, in ammirazione, non in orrore, della
decomposizione dall’interno, come quella che ci viene offerta dei
dipinti di Francis Bacon o Lucien Freud. “Un libro di simpatia con la
morte”, il modo in cui Mann l’avrebbe definito nel saggio “Su me
stesso”. Una composizione musicale sulla decadenza, come lo sono le
sinfonie di Mahler (“Devo annoverarmi tra gli scrittori musicisti. Per
me il romanzo è sempre stato una sinfonia, un lavoro di contrappunto,
un tessuto di temi dove le idee fanno la parte dei motivi musicali”,
avrebbe spiegato, sempre Mann, parlando della sua “Montagna
incantata”). Ma no, “il solo romanzo umoristico dei nostri giorni”,
gli era capitato di scrivere in un’altra occasione al critico svizzero
Robert Faesi. Forse non bisognerebbe badare troppo a quel che di un
romanzo ne dice l’autore. Pesa di più quel che ne cava il lettore. Le
apparenti contraddizioni del “maestro delle contraddizioni”
rivelano che – prerogativa di tutti i veri
capolavori – lo si può leggere in molti modi, e ogni volta in modo
diverso. Thomas Mann aveva iniziato una sua lezione agli studenti di
Princeton con la richiesta – che ammetteva “molto arrogante” – di
“leggerlo due volte”. C’è chi, come Massimo Cacciari, dice di averlo
letto almeno dodici volte. Andrebbe letto, avvertiva, “su molti
piani”. Di cui, “ciò che molta gente vi scorgeva da principio, e anche
oggi vi scorge: una satira della vita nei sanatori per malati di
polmoni” è solo quello iniziale, di “sfondo”, o di “primo piano” che
si voglia. Seguono quello “romantico”, quello filosofico, quello
allegorico e simbolico, del mito, quello medico-biologico-scientifico,
quello dell’eterna iniziazione, persino quello esoterico e occultista.
Ogni lettore vi aggiungeva via via il suo. E l’autore non ne ha mai
rifiutato uno, nemmeno quelli a cui confessa di “non averci pensato”
prima che un critico glielo facesse notare. Gli piaceva pensarci anche
come a un romanzo sui misteri del tempo. Tempo storico, tempo puro, e
“tempo che si accorcia in modo abnorme a causa della monotonia”.
Insomma, anche un romanzo sulla noia. “Castorp, vecchio mio, lei si
annoia. Sta con la testa ciondolone, lo vedo tutti i giorni, l’uggia
le sta scritta in fronte. E’ un bambolone disgustato, viziato dai
fatti impressionanti, e se non le si offre ogni giorno qualcosa di
eccezionale, mette il broncio e borbotta contro la stagione morta”:
così si rivolge il dottor Behrens al protagonista del romanzo,
l’ingegnere navale Hans Castorp, “giovane semplice ma
simpatico”, borghese ed europeo medio, che al sanatorio era
arrivato per una visita di qualche giorno al cugino tisico, e finirà
per restarci sette anni. “Diremo di più. Non soltanto lui, Castorp,
pareva arrivato a quel punto morto, ma egli aveva anche l’impressione
che il mondo, tutto insieme, fosse nelle medesime condizioni, ossia:
pensava che fosse difficile distinguere il particolare
dall’universale”, insiste poco dopo il narratore (Volume II, capitolo
VII, sottocapitolo intitolato “La grande stupidità”, pp. 619 e 621,
citiamo dalla traduzione di Ervino Pocar, per Corbaccio). E’ già molto
avanti nella sua “formazione”, compresa quella sentimentale, e nella
sua “ricerca” del senso della vita (una sorta di eterna ricerca del
“Santo Graal”, secondo molti interpreti, prontamente assecondati dallo
stesso autore). Ha superato tutte le prove di “iniziazione”. E’ molto
avanti nella “guarigione”, anzi guarito, tanto che già da tempo
volevano dimetterlo. A prima vista non gli manca nulla. Non ha il
problema di farsi rimborsare dalla mutua (ci pensa la famiglia). Si è
perfettamente abituato ai ritmi della vita da sanatorio-grand hotel,
ai cinque pasti al giorno (la sua non è noia da assuefazione, non c’è
nulla di avvin- cente quanto le abitudini, ci si
può innamorare anche di una mensa aziendale), alle magnifiche
passeggiate, ai piccoli riti quotidiani, alla mutevole compagnia,
all’andirivieni di ospiti che se ne vanno (per lo più in bara) o che
arrivano, all’alternarsi quasi sempre uguale delle stagioni. Non gli
mancano le distrazioni e l’entertainment: non c’è ancora la
televisione, ma gli ospiti del sanatorio sopperiscono con grande
fantasia di giochi di società, fino alle sedute spiritiche. Producono
una sorta di Grande fratello o di Isola dei famosi non stop. Un intero
capitolo, intitolato “Profusione di armonie” è dedicato
ai gusti musicali, scatenati dall’arrivo di un’ “invenzione
che fa epoca”, “uno scrigno lucidato in nero opaco che, un po’ più
fondo che largo, attaccato con un cavo a una presa elettrica sulla
parete, stava semplice e distinto su un tavolino…”: no, non la tv ma
il suo antenato, un grammofono marca Polyhymnia. E’ un ragazzo ammodo,
fine ed educato, senza troppi grilli per la testa, senza fuori eroici,
sensibile ma abbastanza controllato anche nelle passioni, compresa
quella travolgente per la sua educatrice sentimentale, la felina
madame Claudia Chauchat, dai conturbanti “occhi circassi”. Il problema
è che non ha trovato risposta a nessuno degli interrogativi della sua
“ricerca”. Né quelli terra terra (la medicina, la biologia, il
funzionamento del suo corpo, i rapporti col prossimo, le questioni
personali, l’amore per le donne, o un rimosso amore per gli uomini o
quelle sociali e storiche), né quelli “alti” (il senso del tempo,
quello della vita, quello delle morte). Presumibilmente le risposte
non le troverà quando, a conclusione del romanzo, lasciata la prigione
incantata del sanatorio, sceso finalmente “in pianura”, lo lasciamo
sotto le granate che scoppiano durante l’assalto alle trincee nemiche,
immerso nel fango, nel sangue e i brandelli di carne dei suoi
commilitoni. E, se è per questo, non credo che le abbiamo ancora
trovate, malgrado siano passati quasi altri cent’anni, e malgrado
tante false avvisaglie, le diverse volte che pure era sembrato che
fossimo lì lì per arrivarci. Eppure c’è chi, per oltre metà romanzo,
gli aveva fatto una testa così, per convincerlo della via giusta. A
contendersi ferocemente e incessantemente l’anima del giovane Castorp,
nel coro di personaggi che ruotano attorno al sanatorio (tanti che ci
vorrebbe una scheda promemoria, come per quelli di “Guerra e pace” di
Tolstoj), spiccano il democratico, razionalista, liberale,
nazionalista, umanista, massone, progressista Ludovico Settembrini e
il rivoluzionario, reazionario, ebreo, gesuita Leo Naphta. Il figlio
di carbonaro Settembrini si presenta come l’incarnazione del
politically correct eclettico. Contrappone continuamente ragione
contro istinto, mente contro corpo, spirito contro natura, lavoro
contro ozio, Europa contro Asia, illuminismo contro medioevo,
democrazia contro totalitarismo. “Due principi, secondo la cosmogonia
settembriniana, erano in perpetuo conflitto per il possesso del mondo:
forza e giustizia, tirannia e libertà, superstizione e conoscenza,
legge di conservazione e legge del mutamento”. E’ un pacifista
militante, odia la guerra e la violenza, arriva a sostenere che la
stessa “esistenza del soldato è spiritualmente discutibile”. Come
esitare a scegliere, messa così? Non è solo il buon Castorp ad esserne
attratto. Lo è dichiaratamente lo stesso Thomas Mann, anche se lo
prende in giro, ne fa una macchietta “umoristica”: è “talvolta anche
il portavoce dell’autore”, si sarebbe spinto a confessare agli
studenti di Princeton che nel 1939 lo avrebbero invitato a tenergli
una lezione sulla “Montagna incantata”, pur mettendo subito le mani
avanti aggiungendo che però “non è certo l’autore stesso”. La sua
antitesi, altrettanto eclettica, è il figlio di un macellaio rituale
ebreo della Galizia, che l’acuta intelligenza ha portato al seminario
dei gesuiti, Naphta. Canzona le ingenuità dell’avversario, il suo
“buonismo”: “La liberalizzazione dell’islam! Magnifico. Il fanatismo
illuminato. Benissimo” (p. 374). Gli contrappone un cinismo e un
realismo altrettanto assoluti e fanatici: “Se crede che il risultato
di future rivoluzioni sarà… la libertà, s’inganna. In cinquecento anni
il principio della libertà si è compiuto ed è superato. Una pedagogia
che oggi si considera ancora figlia dell’illuminismo e scorge i suoi
mezzi educativi nella critica, nella liberazione e nella cura dell’io,
nella eliminazione di forme assolute… una siffatta pedagogia potrà
ancora riportare vittorie retoriche del momento, ma la sua
arretratezza è, per chi se ne intende, al di là di ogni dubbio. Tutte
le società educatrici hanno sempre saputo che cosa occorra realmente…:
il comando assoluto, il ferreo impegno, la disciplina, il sacrificio,
la negazione dell’io, la violazione della personalità. Credere infine
che la gioventù si compiaccia della libertà, significa fraintenderla
freddamente. Il suo più vivo piacere è l’obbedienza”, dice. E
aggiunge: “Essa ha bisogno, essa esige, essa saprà procurarsi… sapete
che cosa? Il terrore” (p. 394). Anzi: “Il terrore per la salvezza del
mondo e per la riconquista della redenzione finale, della fede in Dio
senza Stato e senza classi” (p. 397). Il terrore
santo, per “il rinnovamento della società sul modello dell’ideale e
comunista stato di Dio”. Un terrore rivoluzionario, “contro il mondo
internazionale del commercio e della speculazione”. Confusi? Una sorta
di archetipo di “catto- comunista”, un crociato che deride il buonismo
degli illusi, un giustificatore della guerra, del polso di ferro (ci
sono pagine in cui arriva a giustificare eloquentemente persino la
tortura) e che parla come bin Laden? Un laico e un massone che parla
invece come i pacifisti? La confusione potrebbe essere attribuita
all’anacronismo – questa specie di rissa da talk show televisivo, che
si protrae per quasi metà del romanzo – avviene in altra epoca, in cui
le “parti” della commedia possono apparire invertite. Ma la confusione
è probabilmente anche voluta. Chi dei due è più “di sinistra” o più
“di destra”? L’anima bella Settembrini che invoca a ogni piè sospinto
l’homo humanus, o il “comunista” e quasi prete Naphta che invoca
l’homo dei? Se lo chiede ad un certo punto anche Castorp, e arriva ad
una risposta stupefacente: “Naphta, argomentava, era bensì
rivoluzionario come Settembrini, ma lo era in senso conservatore, un
rivoluzionario della conservazione” (p. 453). I due litiganti hanno la
funzione di farsi da spalla, in qualche modo sostenersi, integrarsi
l’uno nell’altro. Ci viene persino preannunciato la prima volta che
Castorp li incontra: “Non vi dovete stupire, questo signore e io
litighiamo spesso, ma sempre in buona amicizia, e in base a parecchi
punti di intesa” (p. 373). C’è chi ha notato che i loro punti di
vista, nella loro simmetria, sono sostanzialmente identici. Ciascuno
dei due ha un rapporto approssimativo con la realtà, che piega alla
propria logica. Entrambi vedono il mondo come campo di battaglia di
forze contrapposte, e ciascuno dei due si allea con quella che
considera “superiore” all’altra. L’uno la chiama “ragione”, l’altro
“fede”. Entrambe portano in un vicolo cieco. Di vie da esplorare ce ne
sono in verità anche altre, forse tante quanti sono i personaggi, a
cominciare da quella incarnata dal piantatore di tabacco olandese in
pensione Pieter Peeperkorn, altra figura nicciana, spuntata si direbbe
dalla nascita della tragedia, la via dionisiaca ed edonista. Ma anche
quella porta alla stessa conclusione, l’unica certezza assoluta, che
tanto vale imparare ad apprezzare anziché temere: la morte, nel caso
specifico per suicidio. Nel 1937 agli studenti di Princeton Thomas
Mann non poteva che promuovere suo “portavoce” che il solo
Settembrini: nel frattempo erano venuti al potere Hitler in Germania e
Stalin in Russia. Nel 1924, l’anno in cui finì di scrivere “La
Montagna incantata” poteva invece permettersi di essere ancora un
pochino più ambiguo. I giovani di cui i due litiganti contendono
l’attenzione li stanno a sentire entrambi, non mandano nessuno dei due
al diavolo. Il cugino militare di Castorp, Joachim Ziemssen, uno dei
soli due personaggi che sembrano sottrarsi alla corrosiva ironia che
colpisce gli altri (l’altro è il nonno Hans Lorenz Castorp, grande e
severo borghese di vecchio stampo, che reincarna il nonno industriale
di Lubecca di Mann), diffida di Naphta, ma con un argomento bizzarro:
“Ha detto alcune cose che mi sono piaciu- te… Ma
lui non mi è piaciuto… guardalo bene, ha un naso da vero ebreo! Così
esili sono sempre soltanto i semiti….”. “Dici così soltanto perché sei
militare. Ma anche i Caldei avevano il naso così, eppure erano
straordinariamente in gamba…”, la risposta del nostro eroe (p. 379).
Naphta parla spesso, quasi testualmente, come Nietzsche. E
all’intellettuale tedesco a cavallo tra i due secoli Thomas Mann,
piaceva molto Nietzsche. I critici concordano nel ritenere che, per la
figura di Naphta, Mann si sia ispirato, anche fisicamente, ad un
personaggio reale, l’intellettuale comunista ed ebreo György Lukács
(“pallido, dal volto scavato, impaziente e triste”, nella descrizione
di un contemporaneo). E quando, dopo il fallimento della rivoluzione
“bolscevica” ungherese di Bela Kun del 1919, questi si rifugiò a
Vienna, Mann arrivò a scrivere all’arcivescovo della città per
intervenire in suo favore. Lukacs, molti anni dopo, gli avrebbe reso
il favore dedicandogli il libro su Thomas Mann e la tragedia degli
intellettuali tedeschi. E nella “Distruzione della ragione” si sarebbe
dato da fare per rinnegare Nietzsche. Mann non fu certo nazista –
dovette anzi scappare in America – tanto meno comunista. Ma la sua
generazione era profondamente influenzata dall’avversione e dal
sospetto che sia il fascismo che il comunismo nutrivano nei confronti
della “democrazia parlamentare”. Nelle “Considerazioni di un
impolitico” spiega perché “l’umanità tedesca sostanzialmente resiste
alla politicizzazione”: “Non voglio che il trafficare del Parlamento e
dei partiti porti all’infezione dell’intero corpo della nazione col
virus della politica… Voglio imparzialità, ordine e pulizia. Se
significa essere filistei, ebbene voglio essere filisteo. Se è essere
tedeschi, voglio, per Dio, essere chiamato tedesco”. Ebbe troppa
grazia, i nazisti lo volevano accoppare. Anche, e particolarmente
perché nel frattempo gli avevano dato il Nobel. Non era ebreo, ma
sarebbe finito probabilmente in un campo di sterminio, magari come
omosessuale in incognito. In America ebbe guai col maccartismo. Tanto
da decidersi a tornare in Europa, ma a Zurigo, non in Germania. Morì
in Svizzera, proprio nel paese dove aveva ambientato i dialoghi della
sua “Montagna incantata”. Settembrini e Naphta sono caricature. Così
come l’intero romanzo è all’insegna dell’humour e della satira. Era
stato concepito inizialmente come versione in parodia, leggera, dei
temi trattati in modo drammatico ne “La Morte a Venezia”. Per poi
gonfiarglisi in mano ed assumere le dimensioni di “romanzo
enciclopedico”. Fanno a gara nell’esagerare, caricaturare, le
rispettive posizioni, le condiscono di un profluvio di riferimenti
dotti, di citazioni erudite, di interpretazioni “ellittiche”, a tratti
demenziali, delle vicende storiche. Sono comici, ma non fanno ridere.
Sarà perché, nella loro a tratti scurrile demenzialità evocano fili
rossi inquietanti, da Ignazio di Loyola a Lenin e infine ad Osama bin
Laden da una parte, e da Voltaire a tutti i suoi più infami “bastardi”
dall’altra? O perché le stupidaggini che dicono hanno qualcosa di
profetico, al di là dei riferimenti che il loro creatore letterario
poteva avere al momento, come quando Naphta si lancia in
un’appassionata apologia della tortura come “risultato di un progresso
razionale”, passo in avanti rispetto al “giudizio di Dio”, all’ordalia
“soppressa perché la gente s’era accorta che il più forte riusciva
vittorioso anche quando aveva torto” (p. 452); o quando tocca invece
all’umanista Settembrini, militante di tutte le buone e giuste cause,
lo “zampognaro della pace” (p. 442) iscritto e promotore di ogni
immaginabile società illuminata e progressista, dalla “lega
internazionale per abolire la pena di morte”, al “congres-
so internazionale per la cremazione”, lanciarsi in una
perorazione della “distruzione del cadavere mediante le fiamme: quale
idea pulita, igienica e dignitosa, persino eroica, a paragone
dell’usanza di lasciare che si dissolva miseramente da sé e venga
assimilato da esseri inferiori!” (p. 450). Giustificazione delle Abu
Ghraib di ogni colore da parte del “comunista” che pure ha visto
morire il padre macellaio inchiodato in croce sulla porta della
propria casa in fiamme dopo un pogrom? Premonizione delle
giustificazioni “igieniche” dei forni crematori di Auschwitz? Non ha
importanza il motivo per cui Mann gli fa dire queste cose. Quel che
conta è ciò che possono evocare nel lettore al momento in cui le
legge. I due in costante battibecco sono stereotipi che provocano,
pasticciano, a un certo punto francamente annoiano. Eppu-
Lucien Freud. “Donna che
indossa un pull-over con farfalle”. Olio su tela, collezione privata
Satira
feroce del fanatismo e delle anime belle liberali; di un gesuita
diventato marxista e di un pacifista inconcludente
re, i “giovani”, a cominciare dal buon
Castorp, continuano a starli a sentire a bocca aperta. Hanno un
auditel elevato, si direbbe oggi. Generazione dopo generazione di
lettori della “Montagna incantata” vi ha ritrovato qualcosa dei
litiganti del proprio tempo. A me stavolta hanno fatto venire in
mente, chissà perché, in ruoli rovesciati, Oriana Fallaci e Tiziano
Terzani. Ad altri lettori potranno evocare figure diverse. Finirà,
nell’ultimo capitolo, con una sfida a duello tra i due. “Lei sbaglia
amico mio – ribatté Settembrini ad occhi chiusi… – lei sbaglia prima
di tutto con l’ipotesi che le cose dello spirito non possano
acquistare carattere personale… Ma sbaglia soprattutto con la
valutazione delle cose dello spirito in genere, che lei considera
troppo deboli da suscitare conflitti e passioni della durezza di
quelli che sorgono nella vita reale e non lasciano altra soluzione che
quella delle armi. Al contrario! L’astratto, il ripulito, l’ideale è a
un tempo anche l’assoluto, il rigoroso e contiene molte più
possibilità di odio, di incondizionata e irreconciliabile ostilità che
la vita sociale…” (p. 692). Ancora una volta inizia in modo ridicolo.
Come all’insegna del ridicolo sono i quadri preparatori del duello: la
disputa, a colpi seriosi di codice cavalleresco, tra polacchi, che
finisce in allegre schiaffeggiature, e la storia dell’antisemita “per
principio e spirito sportivo” Wiedeman, che finisce per “prendersi
bestialmente per i capelli” col commerciante ebreo Sonnenschein. “Una
scena d’orrore da far pietà. Si accapigliarono come ragazzini, ma con
la disperazione degli adulti quando giungono a tanto” (p. 678). Che
susciterebbe ilarità – se questa era l’intenzione dell’autore, ma
ancora una volta conta di più l’impressione sul lettore – se non
fossero seguite Kristallnacht e l’Olocausto. Si conclude invece
subito, e non a scoppio ritardato, in tragedia il duello così
comicamente introdotto tra Settembrini e Naphta. Settembrini, da
gentiluomo e pacifista qual è, spara per primo, e tira verso il cielo.
“ ‘Lei ha sparato in aria’, disse Naphta dominandosi e abbassando
l’arma. Settembrini rispose: ‘Io tiro dove mi pare’. ‘Lei sparerà
un’altra volta’. ‘Nemmeno per sogno. Ora tocca a Lei’. ‘Vigliacco!’,
gridò Naphta ammettendo così che ci vuole più coraggio a sparare che a
farsi sparare addosso; e alzata la pistola in modo che non aveva più
nulla a che fare col conflitto, si sparò alla tempia”(p. 698).
Siegmund Ginzberg
Times New Roman