Saturday, March 05, 2005

"Fa lo stesso", intervista con Agota Kristof

PER LA SIGNORA “FA SEMPRE LO STESSO”
Intervista con Agota Kristof, scrittrice di esilio, dolori e parole scarne


ANNO X NUMERO 54 - PAG VII IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 5 MARZO 2005

Io non scrivo più. Non mi interessa pubblicare.
Se non avessero ritrovato questi
testi non avrei consegnato niente
agli editori per altri dieci anni. D’altra
parte, mi sembra di aver pubblicato abbastanza”.
Protesto. Ha scritto soltanto quattro
romanzi e nove pièce teatrali e, adesso,
ha rivisto i due inediti che stanno di nuovo
facendo parlare di lei in tutta Europa:
una raccolta di scritti autobiografici, “L’Analfabeta”
e una di racconti, “La vendetta”.
Eppure è considerata una delle maggiori
scrittrici viventi in lingua francese,
tradotta in trentatré lingue. “Può essere
che abbia altre cose da raccontare. E’ la
voglia che mi manca. Continuo a scrivere
ogni tanto per me stessa, ma, senza che sia
successo niente di speciale, ho perso l’entusiasmo
necessario. E poi, forse, lo trovo
anche un po’ inutile”. Agota Kristof è uscita
l’altro ieri dall’ospedale ed è tornata
nel suo appartamento: “Sto in una vecchia
casa della parte vecchia di Neuchâtel, in
una strada dove non si sta mai tranquilli.
Ci sono prostitute, drogati, ubriachi. Ma ci
sto bene, c’è il supermercato vicinissimo”.
Dice che si sente vecchia, malata e che le
hanno lasciato un sacco di cicatrici: l’hanno
operata alle gambe, per facilitarle un
poco la motilità, e alla pancia. La voce è
quella ferma e secca di sempre, la erre dura,
ungherese, che non ha mai perso, le
scoppia sotto la lingua. Ogni tanto tossisce
e quella che ha appena rilasciato è una dichiarazione
di abbandono delle scene letterarie,
ammesso che lei se ne sia mai sentita
parte.
Chi la conosce immagina, però, che domani
potrebbe dire a qualcun altro l’esatto
contrario. Perché Agota Kristof vive il momento.
In questo momento si sente vecchia
e malata e ha deciso che non scriverà più.
Domani, chissà. Nell’autunno scorso, ad
esempio, si sentiva ancora piena di speranze.
Ha rilasciato una serie di interviste ai
quotidiani francesi e svizzeri in cui dichiarava
che ci sarebbe stato ancora un romanzo,
nel futuro. Un romanzo su suo padre,
che faceva il maestro. Che venne messo in
carcere quando Agota era adolescente. Dai
russi, perché era un disertore. O perché
abusava sessualmente dei suoi allievi. O
perché si occupava troppo di politica.
Quando Agota Kristof racconta a viva
voce, è lo stesso di quando scrive: i tempi,
i luoghi, i veri nomi non hanno importanza
e quando ce l’hanno spesso non ha voglia
di parlarne. Importano la concretezza
dei fatti e la voce narrante e l’atto della
scrittura, “che ti porta via come un sogno.
Ho l’abitudine di scrivere senza precisare
il luogo in cui si svolgono le azioni. Ho l’abitudine
di scrivere le cose ‘in generale’.
Le cose accadono in generale, un po’ dappertutto.
E non immagino nemmeno i personaggi
in un tempo preciso. Può essere
accaduto oggi. E anche ieri”.
Del prossimo romanzo forse esistono
duecento pagine scritte a mano su alcuni
quaderni. Quaderni che Agota non tocca
quasi più. Duecento pagine di cui comunque,
quando avrà seguito, se mai lo farà, il
procedimento che le è abituale per arrivare
all’opera definitiva, cioè rivedere tutto
con un dizionario alla mano, riordinare
i passaggi secondo coerenza narrativa,
sopprimere gli scarti e finalmente battere
a macchina, rimarrà secondo lei ben poca
cosa. In un’intervista a Le Temps dello
scorso agosto, ha speso tuttavia addirittura
un titolo possibile, “Aglaé dans les
champs”, storia di una bambina che s’innamora
di un adulto: “Come feci io con lo
zio Guéza, un amico di mio padre, pastore
del villaggio. Avevo sei anni. Fu il mio primo
amore. Ero certa che ci saremmo sposati,
quando fossi cresciuta”. Ma chissà se
questa storia la scriverà davvero. Qualche
anno fa, Valérie Petitpierre ha scritto un
saggio molto dettagliato sull’opera di Agota
Kristof, “D’un exil, l’autre”, per lo stesso
editore che nella Svizzera francese
pubblica “L’Analfabeta”, Zoé. Un saggio in
cui si parla molto di menzogna, di autoesilio
di Agota anche attraverso la scrittura.
Alla Kristof non è piaciuto: “Non amo certe
cose che scrivono su di me. Non sempre
c’è qualcosa da spiegare e comunque non
si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio
non c’è molto da dire. Sono fatti.
Tutto qui”.
In questi giorni, in Italia, quasi in contemporanea,
arrivano due raccolte di testi
inediti di Agota Kristof, “L’Analfabeta” e
“La vendetta”. Il primo è uscito meno di
un mese fa, pubblicato da Casagrande, un
editore ticinese, il secondo arriva in libreria
la settimana prossima per Einaudi, l’editore
storico della Kristof in Italia, dopo
la cessione dei diritti da parte di Guanda.
Si tratta di due volumi la cui storia è in
qualche modo collegata. Agota Kristof ha
ceduto da tempo la gran parte dei suoi manoscritti
all’Archivio Nazionale di Berna:
“Quelli dell’‘Analfabeta’ sono testi di
vent’anni fa. Ho dato tutto quanto all’Archivio
perché non avevo alcuna intenzione
di pubblicare i vecchi testi. Per me soancora

no finiti, come se li avessi gettati via. Qualcuno,
editori italiani, li ha trovati, gli sono
sembrati interessanti, li ha richiesti. L’archivista
della biblioteca è una signora
adorabile che tiene tutto in perfetto ordine
e classifica i miei scritti, che siano o
non siano terminati. Se li avessi tenuti io
non li avrei mai ritrovati. Ho così tanta
carta in casa e c’è un tale disordine”. Si
trattava di testi sia autobiografici che letterari,
racconti. Agota avrebbe voluto consegnare
il tutto nelle mani dell’editore
Zoé, ma il suo editore francese, Seuil, ha
rivendicato per contratto i racconti: “Sono
terribili, non ti piaceranno affatto”, ha cercato
di spiegare a Bertrand Visage di
Seuil la Kristof. “Ma invece gli sono piaciuti.
E’ stato sgradevole riprenderli in
mano. Fosse stato per me, non li avrei mai
proposti a nessuno”. Così, nel 2004, a poco
meno di dieci anni di distanza dall’uscita
del suo ultimo romanzo, “Ieri”, la Kristof
ha revisionato gli scritti per “L’analfabeta”,
una raccolta di brevi testi autobiografici
composti tra il 1989 e il 1990 per una rivista
culturale di Zurigo, Du: “Una volta al
mese, mi toccava scrivere due cartelle e
mezzo in francese, che poi venivano tradotte
in tedesco. Mi pagavano molto bene
e mi sono detta che sarebbe stato uno
scherzo onorare l’impegno. In realtà quei
paginoni, le scadenze obbligate, mi davano
il tormento. Erano una perdita di tempo
e di concentrazione per la scrittura dei
romanzi”.
Più o meno nello stesso periodo dell’anno
scorso ha rimesso mano anche ai racconti
per Seuil, che in Francia sono usciti
a gennaio, con il titolo “C’est égal”. Si tratta
di venticinque brevi racconti, alcuni di
nemmeno due paginette, anteriori persino
ai romanzi e alle pièce teatrali. La Kristof
racconta che si tratta di esercizi di stile,
saggi di realismo e di surrealtà, diversi tra
loro per stile e lunghezza: “Ci sono molti
testi che avevo già scritto in una prima
versione ungherese. E poi quando ho iniziato
a scrivere in francese li ho tradotti.
Alcuni erano poesie in origine. Allora non
ero capace di farli diventare poesie francesi
e allora li ho trasformati in racconti:
‘Non mangio più’, ‘La scure’, ‘Casa mia’, ad
esempio”. E’ vero: in alcuni di questi racconti
sembra ci sia persino un metro, se li
si legge in francese. Alla fine sono rimasti
poesie, quelle che Agota scriveva in fabbrica,
appena arrivata a Neuchâtel. Perché
lei dice che la fabbrica, per scrivere
poesie, va benissimo: “Si può pensare ad
altro, e le macchine hanno un ritmo regolare
che scandisce i versi”. In uno dei racconti,
“Il canale”, compare già il puma che
si ritrova in un romanzo successivo, “La
terza menzogna”. Mi piacerebbe sapere se
ha significato simbolico. In un romanzo di
Anna Maria Ortese, “’Alonso e i visionari”,
c’è un puma, che rappresenta Cristo, il sacrificio:
“Ma no. E’ solo un incubo. Ho
spesso incubi con animali. E il puma ogni
tanto ritorna. Non c’è niente di simbolico.
E nemmeno negli altri racconti. Sono solo
visioni”. I venticinque racconti risalgono
alla prima metà degli anni Sessanta, quando,
grazie a una borsa di studio, frequentava
i corsi estivi per stranieri all’Università
di Neuchâtel, dove si è stabilita con la
famiglia dal 1957. Al professore di allora,
che le chiedeva perché si fosse iscritta ai
corsi per principianti, dato che parlava già
bene il francese, risponde: “Perché non so
né leggere né scrivere. Sono analfabeta”.
Il rapporto di Agota Kristof con la lingua
è stato davvero, sempre, una sfida, la
sfida di un’analfabeta, come si definisce
lei. La lingua è un’ossessione, più dei sensi
che dei sentimenti, affrontata usando
come arma, irrinunciabile ancora oggi, i
dizionari. La lingua perduta, l’ungherese,
è il simbolo, ammesso che una donna così
concreta ci conceda di parlare di simboli,
del vero esilio. Nata nel 1935 a Csikvand,
un paesino privo di stazione, di elettricità,
di acqua corrente, di telefono, con una sola
strada, nessun marciapiede, fango dappertutto
e immensi campi di mais e grano
tutto attorno, impara a leggere a quattro
anni. Suo padre è l’unico maestro del paese
e insegna a tutte le classi. Ogni tanto lei
va a trovarlo e si siede in fondo all’aula,
con un libro in mano: “Ed è così che, ancora
in tenera età, senza accorgermene e
assolutamente per caso, vengo colpita dall’inguaribile
malattia della lettura”, scrive
nell’“Analfabeta”. In famiglia, però, solo il
nonno è orgoglioso di una nipotina che
legge veloce e senza errori. Altrimenti,
quella “malattia” le provoca spesso rimproveri
e disprezzo: è pigra, continua a
leggere, legge invece di: “Invece di cosa?”.
Quando Agota ha nove anni, la famiglia
si trasferisce a Köszeg, la “Piccola Città”
descritta nella “Trilogia della città di K”,
il nome sotto il quale in Italia Einaudi ha
raccolto i suoi primi tre romanzi: “Il grande
quaderno”, “La prova”, “La terza menzogna”.
Si trattava di una città di frontiera
in cui almeno un quarto della popolazione
parlava la lingua tedesca, anzi un dialetto
della lingua tedesca. Per gli ungheresi si
trattava di una lingua nemica, ma anche
Agota scopre per la prima volta quanto sono
grande l’ostilità e l’estraneità, anche se
a volte immaginaria, espresse da una lingua
che non è la propria e che tuttavia si è
costretti ad apprendere.
La lacerazione ha inizio, è da qui che
parte la sfida dell’analfabeta. Per Agota
scoprire che esiste una lingua straniera è

una trauma pari alla perdita di un genitore:
“All’inizio, non c’era che una sola lingua.
Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori,
i sogni, le lettere, i libri, i giornali,
erano quella lingua. Non avrei mai immaginato
che potesse esistere un’altra lingua,
che un essere umano potesse pronunciare
parola che non sarei riuscita a capire. Perché
avrebbe dovuto farlo? Per quale motivo?”.
E’ ancora piccola, eppure si sente
spossessata, inerme. E’ da questo momento
che per riappropriarsi in modo concreto,
come solo sa fare, della lingua, inizia a
scrivere: a dieci anni ha un’ortografia perfetta,
sbriga i compiti in un quarto d’ora
durante la ricreazione. La prima volta che
consegna un tema al professore di letteratura
ungherese ha paura. Il tema è corto,
troppo corto. Ma il professore apprezza.
“E’ così che dovete imparare a scrivere”,
dice alla classe. “E’ breve, conciso, essenziale”.
Non sapeva, il professore, quanti
critici letterari e giornalisti l’avrebbero
imitato in quel giudizio. Al ginnasio il secondo
strappo: “Impariamo anche il russo.
Nessuno conosce il russo. I professori di
lingue straniere, tedesco, inglese, francese,
si mettono a frequentare corsi intensivi
di russo per qualche mese ma non si
può dire che lo imparino veramente, e non
hanno nessuna voglia di insegnarlo. Da
parte loro, gli allievi non hanno nessuna
voglia di impararlo. Ciò che si verifica è
un sabotaggio intellettuale nazionale, una
resistenza passiva naturale, non concordata,
che si mette in moto da sé. Con la
stessa mancanza d’entusiasmo vengono insegnate
e imparate la geografia, la storia e
la letteratura dell’Unione Sovietica. Dalle
scuole viene fuori una generazione di
ignoranti”.
A quattordici anni, per povertà (“Gli anni
Cinquanta: tranne qualche privilegiato,
sono tutti poveri nel nostro paese. Certi sono
persino più poveri degli altri”), Agota
viene separata dai suoi amati fratelli, Attila
e Jano, e dai genitori ed entra in un
collegio “tra la caserma e il convento, tra
l’orfanotrofio e il riformatorio”. La posta
viene distribuita già aperta e alle sette e
mezzo del mattino ci si avvia verso la scuola
intonando canti rivoluzionari. I libri accessibili
sono quelli di “lettura obbligatoria”.
Agota incomincia un diario, in una
scrittura segreta, per raccontare tutto
quello che la fa piangere: “Piango soprattutto
la mia perduta libertà. E piango anche
la mia infanzia.” La sapienza narrativa
dei ricordi contenuti nell’ “Analfabeta”
sfiora in alcuni tratti la “gioia macabra”
della “Trilogia”. Uno di questi passi è
quello in cui si racconta la reazione suscitata
dalla morte di Stalin tra le ragazze del
collegio. Siamo nel marzo 1953, Stalin è
morto la sera precedente. Le ragazze chiedono
se ci sarà lezione. Gli viene risposto
che sì, ma che andranno a scuola senza
cantare. La giovanissima Agota ha sempre
in tasca la foto a colori del dittatore: “L’indottrinamento
era grande, e particolarmente
efficace sulle giovani menti”. Alle
ragazze viene chiesto di comporre un tema
intitolato “La morte di Stalin”: “In questo
tema scriverete tutto ciò che il compagno
Stalin è stato per voi. Dapprima un padre
e poi un faro luminoso”. Ma quando alle
undici si attende il segnale dalla sirena
della città per alzarsi e osservare un minuto
di silenzio, suona invece un’altra
campana: quella per il ritiro della pattumiera.
E l’intera classe scoppia a ridere.
“Le direi volentieri che ricordi ho della
rivoluzione, ma credo che nel libro ci sia
scritto tutto. Eravamo nel caos totale, c’era
la guerra civile, l’atmosfera era penosa,
tutti volevamo scappare. Ma in realtà non
ci furono veri cambiamenti. Si era instaurato
il terrore. Quando sono arrivati altri
paesi, la Germania e così via, allora sì che
c’è stato un cambiamento. I russi non erano
più al potere, è iniziata la democrazia,
è arrivata la libertà in tutto il paese: quello
era il vero cambiamento: economico,
politico e anche culturale. Tutto è migliorato.
Se fossi rimasta, sarei stata più libera.
E forse più felice. Ho pensato più volte
di tornare, ma avevo i figli, qui. I miei figli
sono svizzeri, completamente. Non volevo
partire da sola”. Anche nel ricordare la
dittatura, il rimpianto di Agota è per la
lingua perduta, e per la cultura: “Ciò che
non si potrà mai quantificare è il ruolo nefasto
che la dittatura ha avuto su arte e letteratura
dell’Est”. Non ricorda che alcuno
scrittore russo dissidente ne abbia mai
parlato. Non ricorda che alcuno scrittore
dissidente russo si sia chiesto che effetto
abbia avuto sulla cultura di quei “piccoli
paesi senza importanza” l’indottrinamento
russo: “Loro almeno subivano un tiranno
che parlava la loro stessa lingua”.
A ventun anni, sposata da due e con una
bambina di quattro mesi, attraversa il confine
tra l’Ungheria e l’Austria in una sera
di novembre, con l’aiuto di un passatore di
nome Joseph, suo amico d’infanzia, suo
primo amore. Il marito di Agota porta la
bambina. Lei, due pesanti borse: biberon,
pannolini, vestiti di ricambio, in una. Nell’altra,
dizionari. Lascia in Ungheria il
diario dalla scrittura segreta e anche le
sue prime poesie. Lascia i fratelli, i genitori
senza avvisarli. Ma soprattutto, quel
giorno di fine novembre 1956, lascia la sua
lingua, la sua “appartenenza”: “Adesso la
cosa che mi manca di più dell’Ungheria –
mi confessa – è la famiglia, gli amici. Spesso
posso parlare ungherese, sento i miei
fratelli al telefono, leggo in ungherese. Ma
non potrei più scrivere in ungherese. Ricordo
la mia lingua, ma non abbastanza
per la letteratura”. E se una lingua non è
per la letteratura, non è la sua lingua. Da
quando ha traversato il confine, Agota ha
lanciato la sua sfida al francese e non ha
mai smesso. Parla francese da cinquant’anni,
lo scrive da quarant’anni, ma

soancora
non lo sente completamente suo.
“L’ungherese è una lingua fonetica, il francese
è l’esatto contrario”: lo scrive con un
dizionario e lo parla ancora con errori.
Per lei la lingua francese è ancora una lingua
nemica. In più, questa lingua ha ucciso
in parte la sua lingua materna.
Dal piccolo villaggio austriaco oltrecortina
a Vienna, dal centro profughi di Vienna
a Losanna, in una caserma: cioccolata,
arance, sigarette, soldi lanciati ai profughi
attraverso la recinzione. Poi a Zurigo, alloggiati
in una scuola forestale. Finché in
modo del tutto casuale, Agota e la sua famiglia
arrivano a Neuchâtel, esattamente
a Valangin. Il marito riprende ad insegnare
storia, lei lavora in una fabbrica di orologi,
a Fontainemelon. Si alza alle cinque,
porta la bambina al nido, ritorna alle cinque
della sera, fa la spesa, cucina, scrive
un po’, poi va a letto: è la vita che descrive
in “Ieri”, il suo romanzo più autobiografico,
dove narra anche il suicidio dei quattro
compagni arrivati in Svizzera con lei
dall’Ungheria e che non hanno resistito all’esilio.
E’ il romanzo che Silvio Soldini ha
fatto diventare un film applaudito da pubblico
e critica a Berlino nel 2002, “Brucio
nel vento”. Un film che Agota non ha mandato
giù, invece: “Ci ha messo l’happy end.
Non ha voluto ascoltarmi. Non è con i finali
ottimisti che si risolvono le cose”. In
generale comunque, non le piace chi mette
le mani sui suoi scritti, ama poco anche
la gran parte dei suoi traduttori: “Tradiscono
lo spirito, e la lingua. Rimettono tutto
in ordine, tutto normale, ripuliscono
quello che scrivo, come se non facesse differenza”.
Quando arriva in Svizzera, ha poche
speranze di diventare una scrittrice. Pubblica
qualche poesia in una rivista ungherese
e dopo lunghi anni, due pièce di teatro
in lingua francese ma non sa che farne,
dove spedirle, a chi. Scrive pièce perché è
più facile e i dialoghi somigliano a quelli
che sente tutti i giorni, nessuna descrizione,
solo un nome da mettere davanti ai
personaggi. La prima pièce recitata per diversi
mesi, dal titolo “John e Joe”, viene
allestita in un’osteria, al Café du Marché
di Neuchâtel dove si esibiscono cabarettisti
il venerdì e il sabato dopo cena. Due
anni dopo un’altra va in scena al Théâtre
de la Tarentule a Saint-Aubin, con attori
dilettanti. E intanto decine di suoi manoscritti
ingialliscono sugli scaffali. Finché
qualcuno le consiglia di mandarli alla radio.
Vuol dire attori professionisti e diritti
d’autore: tra il 1978 e il 1983 la Radio
della Svizzera romanda manda in onda
cinque pièce. Nel 1985 è pronto il romanzo:
un grande quaderno scritto a mano,
che contiene una storia coerente, con un
inizio e una fine. All’inizio doveva essere
un romanzo autobiografico. Ma piano piano
si è trasformato nella storia di due gemelli
in mezzo alla guerra, obbligati a essere
duri per sopravvivere. A chi darlo?
Un amico le rivela “Bisogna partire dai
tre grandi a Parigi”: Gallimard, Grasset,
Seuil. Agota fa tre copie del quaderno e
scrive tre lettere identiche: è sicura che
qualcuno lo pubblicherà. Dopo due rifiuti,
un giorno di novembre le telefona Gilles
Carpentier delle edizioni Seuil. Le dice
che da anni non leggeva niente di così
bello. Prepara il contratto.
Si lascia un po’ andare, finalmente, dopo
mezz’ora di conversazione: “Forse oggi
mi piacerebbe scrivere romanzi gialli,
“policier”. Ma non conosco abbastanza il
funzionamento dei tribunali, della polizia.
Mio fratello, che vive a Budapest e fa anche
lui lo scrittore (il minore, Attila, ndr)
scrive gialli. Ne ha scritto uno sul terrorismo,
ambientato nel 2015. L’ho letto due
volte”. ”. D’altra parte a Neuchâtel ha vissuto
anche Dürrenmatt.
Mi dice che tutto sommato pensa di non
aver sofferto granché, di non aver avuto
una vita triste. Dice che la parte peggiore
sono stati i mariti. Si è sposata due volte e
una è stata peggio dell’altra. Ha orrore del
matrimonio e riesce a considerare gli uomini
solo se non sono “mariti”. Dice che
innamorarsi non vale la pena, che è banale,
che l’unica cosa per cui non si pente di
aver vissuto storie “da donnette” e di essersi
sposata sono i figli. Adesso una è attrice
di teatro, uno musicista, ma ex-libraio,
così ogni volta che le viene voglia di
leggere un libro lui glielo procura tra le
centinaia che conserva in cantina. Dice
che non scriverebbe mai storie d’amore,
che è uno dei motivi per cui non ama le
scrittrici donne, a parte Magda Szabó, perché
le donne di solito scrivono d’amore. O
di matrimonio, divorzio, sentimenti. Banale,
ripete. Tira fuori di nuovo quell’indole
pragmatica, asciutta, difensiva di chi crede
che alla mattina appena svegli bisogna
alzarsi subito, altrimenti arrivano i cattivi
pensieri se si sta troppo nel letto.
Le chiedo che cosa l’appassiona, allora,
che cosa l’infiamma, adesso, che cosa la
rappresenta davvero. “Ascolti, il titolo
francese per la raccolta di racconti l’ho
scelto io. E’ il nome di uno dei racconti, si
chiama ‘C’est égal’, ‘Fa lo stesso’. Ecco,
quello mi rappresenta. E’ la mia natura. Io
sono così. Per tutta la mia vita è stato così.
Non è l’età che mi ha portato a questo
punto. E’ stato sempre così, anche per l’amore.
E lo diventa sempre di più. Anche
per la scrittura, per la letteratura. Per me
fa tutto lo stesso”.

2 Comments:

Blogger Vanessa said...

Molto bello.

2:52 AM  
Blogger Anna said...

chi è l'autore dell'articolo?

1:56 AM  

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