Thursday, March 17, 2005

[Sgrena] Sulla fermezza la pensavamo come gli USA

Il Riformista, martedì 8 marzo 2005

SULLA FERMEZZA LA PENSAVAMO COME GLI USA
DI EMANUELE MACALUSO

Nei giorni drammatici del rapimento di Aldo Moro, i dirigenti del Pci
discussero ripetutamente la posizione da assumere a proposito della
richiesta, che veniva dallo stesso presidente della Dc, di trattare con
le Brigate rosse uno «scambio di prigionieri». Ricordo bene quelle
discussioni concluse sempre con l'unanime decisione di rifiutare
trattative e scambi. Gli argomenti di quella scelta erano essenzialmente
quelli che oggi usano gli Usa: ogni trattativa è una sconfitta dello
Stato e un successo dei terroristi. Ma per Amendola, Pajetta e altri,
che erano stati nelle carceri fasciste, trattare era sinonimo di
tradire. Essi facevano valere anche un altro argomento: se una persona
sceglie di fare politica e si ritrova alla guida dei partiti e delle
istituzioni, deve mettere in conto che può subire quel che subì Moro. Lo
stesso ragionamento sentivo fare a Pertini e a La Malfa. Sono posizioni
discutibili, e infatti furono contestate da persone rispettabili - io
però le condivido ancora oggi - ma erano chiare e nette. Quei giorni mi
sono venuti in mente leggendo quel che si scrive sui giornali e che
dichiarano tanti esponenti politici, dopo la morte di un funzionario
dello Stato che, per conto dello Stato, aveva trattato con i rapitori di
Giuliana Sgrena, liberandola e salvandola col suo personale sacrificio.
Sacrosanta la decisione del Capo dello Stato di decorare con una
medaglia d'oro Nicola Calipari.
Complotto? In questa nota non discuto sulle responsabilità, tutte da
accertare, dei militari e forse dei comandi Usa per la sparatoria che ha
ucciso Calipari e ferito Giuliana. Non mi riferisco certo al
«complotto». Affronto un altro aspetto della questione: qual è la
posizione del governo, e anche dell'opposizione, nei confronti dei
rapimenti? Oggi c'è la «fermezza» come linea ufficiale e la trattativa
come linea di fatto. Si dice che non si pagano riscatti, e poi si sa e
si scrive qual è la cifra pagata. Questo equivoco non è solo fonte di
altri equivoci nei rapporti, in Iraq, con le forze Usa che adottano una
linea intransigente. E' anzitutto fonte di equivoco per chiunque svolga
la sua attività in Iraq. Tutti dovrebbero sapere qual è il rischio che
corrono se sequestrati, e ognuno poi prenda le decisioni che vuole. Se
un giornalista va in Iraq e vuole legittimamente raccontare e
testimoniare l'errore e l'orrore della guerra, deve poterlo fare sapendo
i rischi che corre. Lo stesso ragionamento vale per chi legittimamente
sostiene le ragioni della guerra, per chi va per affari o per lavoro. Ma
tutti debbono sapere, se si verifica un sequestro, qual è l'orientamento
dello Stato. Oggi il Parlamento discute sulla drammatica liberazione
della Sgrena e l'uccisione di Calipari. Spero che governo e opposizione
dicano cose chiare. Più in generale, la questione del rischio di chi fa
un certo mestiere andrebbe affrontata con serietà. Oggi un parlamentare
che riceve una lettera minacciosa (chissà chi gliela manda) ottiene la
scorta. Se hanno paura cambino mestiere. Non è possibile che in Italia
ci sia un numero così elevato di uomini politici, magistrati e alti
funzionari scortati. Il caso del professor Biagi è grave, perché non era
scortato in un paese di scortati.

1 Comments:

Blogger annarella said...

Leggevo l'ultimo pezzo sulle scorte e mi veniva in mente una scena a cui ho assistito in treno durante un viaggio di lavoro: arriva una donna poliziotto carica di borse da shopping che accompagna una signora.
La signora non so chi fosse, suppongo la moglie di qualche potente.
Mi colpiva che avesse una portaborse armata in un paese in cui gente come Biagi e' morta perche' quella scorta non l'aveva.

1:57 PM  

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