Monday, March 14, 2005

[Pannella] La resa ai dittatori chiamata "pace"

La resa ai dittatori chiamata "pace"

• da Corriere della Sera del 7 marzo 2005, pag. 1, 10
di Marco Pannella

Nicola Calipari è caduto, è morto perché ha fatto parte, fa parte,
dell'Italia-che-resta, dell'Italia-che-va, non di quella che chiama
"pace" il "non-andare" nella Cambogia di Pol Pot e perfino il
"venir-via", ora, dall'Irak che ci chiede di restare; invece, questa
Italia "de sinistra" va, ma solo in pellegrinaggio, ovunque, da sempre,
che fosse nell'impero comunista sovietico o nella Cina che stermina con
altre popolazioni intere ancora oggi i propri contadini, come altrove fu
con le popolazioni del Volga-Don. Una "Italia" -questa-
antropologicamente, ormai o ancora, antiamericana e antiliberale, e che
non declina mai, né come soggetto né come oggetto, né a Venezia né
altrove, la parola "libertà".

Nicola Calipari fa parte ideale e tragica dei novecentomila irakeni
assassinati da Saddam, lasciato in pace, assoluta, ad assolvere le
funzioni di macellaio del suo popolo e dell'umanità; lasciato in pace
perché dittatore, antidemocratico, antiliberale, come spesso accade dove
la società è retta in tal modo, mentre ci si scatena, a lungo,
ferocemente, contro i "crimini" del Messico o della Turchia, e ovunque,
se vi sia in atto un processo democratico, e "occidentale".

Nicola Calipari è caduto, è morto, come soldato (e non come assoldato)
della pace e della libertà; in obbedienza ai deliberati e agli appelli
dell'ONU e dell'Irak, degli irakeni, e innanzitutto della sua coscienza
di cittadino e di "servitore" dello Stato italiano. Onora noi tutti,
tranne coloro che continuano a considerare l'assassinio e il terrorismo
contro le donne e gli uomini d'Irak un'arma doverosa e esclusiva,
ideologica e quotidiana; e che considerano costoro come "resistenti",
come "patrioti", come "vittime" degli "americani" e degli "italiani",
dei "britannici", con sciagurata fedeltà ideologica ad una storia per
tanti versi infame che si dichiara -nel contesto- superata, ma non certo
ripudiata.

Nicola Calipari, ha lui dato corpo e anima alla nonviolenza; non altri
che la "scoprono" ora, e che insultano la verità storica, continuando
nel miserrimo gioco di distinguere (e contrapporre) il "popolo"
americano da colui che quel popolo ha eletto a governarlo e
rappresentarlo, o di cui approva, con una amplissima maggioranza
democratica, l'operato. Costoro rispettano i "silenzi" "cambogiani",
"irakeni", e disprezzano le voci "americane", "democratiche", italiane;
e comunque ignorando le loro ragioni, per meglio colpirli per i loro
errori o torti, veri o presunti che siano.

Infine, se non fosse stato tacitato per sempre, dubito che Nicola
Calipari avrebbe mai ringraziato i suoi potenziali e poi veri assassini
per averlo "solamente" ferito, fisicamente o moralmente, e magari -poi-
curato gentilmente.

Quando, come radicali, abbiamo tentato di contrapporre alla "necessità"
di una fase bellica, la scelta di liberare l'Irak ("Irak libero!"), di
por fine allo sterminio delle popolazioni irakene con la sola arma della
democrazia e della diplomazia, della scelta di un'immediata attivazione
di un progetto -garantito dall'ONU- di transizione verso la democrazia
in Irak, assicurando a Saddam la convenienza della scelta dell'esilio
(progetto fatto proprio dalla maggioranza assoluta dei parlamentari
italiani, di centro-destra e di centro-sinistra), costoro nemmeno
mostrarono di accorgersene. Lottavano solo contro Bush; quel "resto"
dava solo fastidio.

Così, Governo, Opposizione, "masse" e "girotondini", "pacifisti" e
"rivoluzionari", mobilitatisi in tutto il mondo, indussero Saddam a
restare a Baghdad, facendolo ritenere vittorioso -non solo moralmente-
agli occhi del mondo, e suoi propri.

Il Governo e l'Opposizione facciano pur commentare ora, come sempre,
dalla Terza Camera presieduta da Bruno Vespa, o dalla Commissione
Bipolare di Giovanni Floris, a Fausto Bertinotti, Clemente Mastella,
Prodi e Berlusconi (se accettano), o ad altri loro habitués, la vita e
la tragica morte di Nicola Calipari, il liberatore di Stato, cui la
vittima del sequestro deve principalmente la libertà e la vita.
Silenziati e non silenziosi; vietati e non vieti, impediti a concorrere
legalmente al loro gioco democratico, siamo e vogliamo essere "irakeni",
vogliamo condividerne le sorti nella prospettiva della "comunità delle
democrazie" che stiamo contribuendo a costruire.

Ammettiamo pure che questo sia il grido che emettiamo dalla nostra
Resistenza antiregime, antipartitocratica, antibipolare,
antifondamentalista, anticlerico-autoritaria, anticlerico-fascista,
anticlerico-comunista. Mi emoziona e mi consola di pensarlo, come una
eco di un articolo che il comunista "Paese sera" mi pubblicò nel 1959
come editoriale, in cui già allora proponevo (come vorrei poter fare
ancor oggi, con la durezza di questo intervento) alla sinistra
democratica e liberale da una parte, e dall'altra, a quella comunista e
di sinistra socialista, quanto -con un ritardo di mezzo secolo- sembra
costituire l'essenziale di gran parte della classe dirigente dei DS e
della Sinistra e Centro-sinistra europei. E che rischia di essere
travolto, in queste settimane, sia che si tratti di politica
internazionale o di difesa referendaria dei diritti umani in Italia,
anche da "alte" parti dell'Unione di centro-sinistra.

So che quanto ho scritto, che è sicuramente anche un grido, farà a loro
volta gridare, di sdegno e di furia eliminatoria, molti. Ma proprio
questo, credo, sia il miglior modo di onorare la vita e la morte del
poliziotto italiano (figlio di quelli intravisti e celebrati a Valle
Giulia da Pier Paolo Pasolini), di Nicola Calipari, con il suo quanto
eloquente, gridato nei fatti, itinerario Reggio Calabria, Genova, Roma,
Baghdad.

Non andrò stamani, a salutare, con "tutti", Nicola Calipari. Non solo
perché aborro queste celebrazioni ufficiali dove pullulano "autorità"
che non di rado considero come usuali celebranti, se non autori, delle
sciagure nazionali, sulle quali poi e solennemente piangono.

L'ultima volta che vi partecipai fu nel 1979 (proprio a Santa Maria
degli Angeli), ai funerali del Comandante Generale dei Carabinieri Mino,
assassinato dal para-Stato, da assassini ancor oggi protetti dallo
Stato, per tentare anche in quel modo di lottare da radicale per un po'
di verità, in un regime fatto di morte della legalità e di assassini
della Giustizia e della vita civile.

Ma questa volta non tornerò alla Basilica di Santa Maria degli Angeli,
come pur feci per la celebrazione in onore del generale Mino. Quel
giorno, nella folla, mi scorse un altro amico, il Colonnello dell'Arma
Antonio Varisco, che accorse indicandomi perché la gente, vicina e
stupita, lo udisse: "Lui gli voleva davvero bene, e Mino gliene voleva
ancora di più, forse. Grazie, Marco!". Poco dopo, Antonio Varisco fu
assassinato anche lui, ma da terroristi o assassini o "resistenti"
italiani, per conto delle "Brigate Rosse". Non andrò, anche se questa
volta "lo Stato" non è complice ma difensore del "suo" Nicola Calipari.

Noi lo saluteremo e onoreremo, martedì a Strasburgo, nella sessione
plenaria del Parlamento Europeo, quale testimone di un'altra Europa e
un'altra Italia da quelle che chiedono di ritirarci oggi dall'Irak, come
ieri di non andarci, per lasciarlo ai Saddam ed ai loro eredi.

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