Tuesday, March 08, 2005

[sgrena] L'Italia finanzia l'industria dei sequestri

Il Riformista, martedì 8 marzo 2005

IRACHENA 1. IN UN ANNO RAPITI 190 OCCIDENTALI. E CHI HA SALVATO LA PELLE
HA PAGATO SALATI RISCATTI
L'Italia finanzia l'industria dei sequestri
I più generosi contributori dei gruppi baathisti, che non possono più
contare su Siria e petrodollari sauditi

Più di 190 stranieri sono stati rapiti in Iraq nell'ultimo anno. Almeno
13 rimangono ancora nelle mani dei loro rapitori. Una trentina sono
stati uccisi. Il resto è stato liberato, la maggior parte dietro
pagamento di un riscatto. Con il linguaggio secco da bollettino di
guerra, Todd Pittman dell'Associated Press, uno dei giornalisti che
lavora a Baghdad per offrire l'informazione più onesta possibile su quel
che sta accadendo, ci informa che è natta e si è sviluppata fiorente
un'industria dei sequestri la quale ha un suo fatturato, con costi e
benefici e distribuisce i suoi profitti. Al suo bilancio ha contributo
anche l'Italia, precisamente il governo italiano (e in ultima istanza il
contribuente) per una somma non indifferente. Se sono stati pagati circa
6 milioni di dollari per liberare Giuliana Sgrena, sommandoli a quel che
è stato sborsato per le due Simone e le quattro body guards si arriva
tranquillamente a una dozzina di milioni di dollari. Il che ci rende il
più generoso contribuente alla guerriglia baathista. Sono stime del
tutto improvvisate, basate sul sentito dire, sia chiaro, perché
informazioni ufficiali non ve ne sono. Ammettiamo anche che il valore
marginale di altri stranieri rapiti fosse inferiore (come l'uomo
d'affari giordano per il quale sono stati chiesti "appena" 250 mila
dollari) l'industria dei sequestri ha incassato non meno di cento
milioni di dollari. A chi sono andati e per fare che cosa?
Per rispondere bisognerebbe sapere esattamente chi sono i rapitori. E
non è affatto semplice. Si nascondono dietro una cortina di sigle
diverse, nessuna delle quali per la verità rispondono ai nomi ufficiali
dei gruppi che formano la guerriglia. Gli americani distinguono
guerriglieri e terroristi veri e propri: questi ultimi coincidono con i
gruppi della galassia al Qaeda. I loro rapimenti in genere finiscono nel
sangue. I primi, anche se usano mezzi terroristici, sono riconducibili
alle milizie baathiste. Secondo una ricostruzione che viene dalla loro
stessa fonte, Saddam Hussein nel 1998, subito dopo i missili lanciatigli
dall'amministrazione Clinton, sentendosi per la prima volta seriamente
minacciato, creò un esercito parallelo di 15 mila uomini, addestrati
alla guerriglia e pronti a scomparire tra le dune del deserto per
riapparire solo in caso di necessità (cioè di una invasione americana).
Ne fanno parte componenti della Guardia repubblicana, di Fedayin di
Saddam, ufficiali dell'esercito e dei servizi segreti. Non si sa se
obbediscano a un comando unificato anche se un generale che si fa
chiamare Abu Mutasim, in un'intervista ad al Majd, periodico basato in
Giordania e simpatizzante per la guerriglia, sostiene che questo comando
esiste e coordina la resistenza. Opera principalmente nel triangolo
sunnita, ma non solo. Anche nel sud, anche nella zona di Nassiriyah
controllata dagli italiani e dalle milizie di Moqtada al Sadr,
considerato non un traditore, ma un «idiota» che si illude di poter
trattare con il governo provvisorio.
Il vuoto politico che si è creato dopo le elezioni, ha accelerato le
operazioni guerrigliere, dice il generale. L'assemblea nazionale eletta
si riunirà solo la prossima settimana, probabilmente il 16, e i partiti
non sono riusciti ancora a trovare un accordo su chi sarà il primo
ministro. Ma Abu Mutasim giura che anche dopo la formazione del governo
gli attacchi della guerriglia continueranno. Ne sono convinti anche gli
americani i quali insistono perché si stringano i tempi e si compiano
sforzi maggiori nell'addestramento delle forze di sicurezza irachene. Le
incertezze politiche, ci informa l'Ap, stanno complicando la situazione.
Nessuno vuol prendere decisioni per paura di essere sconfessato dal
nuovo governo.
In questa situazione, l'industria dei sequestri serve sia per tenere
accesi i riflettori sia per alimentare le finanze che rischiano di
essiccarsi a mano a mano che anche la Siria di Bashar al Assad( uno dei
principali sostenitori dei baathisti) è sempre più in difficoltà. I
guerriglieri sunniti non possono contare sull'Iran e sempre meno anche
sull'Arabia saudita, dove le maglie verso le componenti radicali e
wahabite, si stanno stringendo. Naturalmente, una forte componente di
criminalità comune si fa spacciare per guerriglia e partecipa a questo
mercato degli occidentali. Rendendo ancor più esplosiva la miscela.
L'unico modo per neutralizzarla è non pagare. Facile a dirsi, più
difficile per dei governi che hanno il dovere di difendere i propri
connazionali all'estero.
L'Italia ha sempre seguito una linea diversa. Fa parte del suo
tradizionale modus operandi soprattutto in Medio oriente. C'è una
tradizione ormai collaudata almeno da vent'anni (cioè dalla nostra
presenza in Libano). Non si tratta solo di opportunismo, ma di
flessibilità dovuta a una conoscenza del territorio migliore rispetto a
quella degli americani. Ieri ai solenni funerali di Nicola Calipari
hanno parlato Letta e Pollari, gli uomini che hanno gestito con sagacia
e intelligenza non solo il sequestro di Giuliana Sgrena, ma anche gli
altri. E di fronte a centomila persone che hanno reso omaggio commosse a
un «eroe nazionale», è davvero difficile mettere da parte la commozione
e ricorrere alla fredda ragione. Ma c'è altro modo per spezzare questo
orrendo circolo vizioso?

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